Quelli che Vittorio Sgarbi realizza da alcuni anni nei teatri italiani vengono definiti e promozionati – per comodità e per convenzione – come spettacoli, ma sono altro. Sono lectiones magistrales in cui lo spettacolo è rappresentato unicamente dall’intelligenza e dal sapere – restituiti per mezzo di un’eloquenza che gratifica mente e udito come può fare la buona musica – del magister. Cioè appunto di Sgarbi. Talché queste performance non abbisognano di una vera e propria regia, bastando alla loro riuscita la presenza carismatica di Sgarbi e l’ausilio di un certo numero di immagini esplicative rimandate da uno schermo, eredi delle diapositive longhiane su cui si formò quel Francesco Arcangeli di cui Sgarbi fu allievo a Bologna, ai tempi dell’università. I soli momenti in cui Sgarbi non è in scena sono quelli in cui vengono eseguiti dal vivo, da capaci professionisti, brani di musica classica, coevi all’argomento della dissertazione. È quanto accade anche nel recente Canova tra innocenza e peccato, i cui spettatori hanno la ventura di ascoltare Mozart e Beethoven.

Un evento, Canova tra innocenza e peccato, per dire del quale è proficuo ritornare al dianzi evocato Roberto Longhi. Il proposito di Sgarbi – esplicato anche nel libro Canova e la bella amata (La nave di Teseo, pp. 132, euro 16), che integra e arricchisce, con l’ausilio di numerosissime immagini fotografiche, l’esibizione dal vivo del critico ferrarese – è infatti quello di confutare, o almeno tentar di confutare, le lapidarie parole con cui Longhi ebbe a liquidare Canova: «Artista nato morto il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove». L’erudita arringa di Sgarbi fa perno su di un dato che viene proposto come punto fermo: il mondo si fonda sulle antinomie. Da qui il titolo, in cui all’innocenza è accostato il peccato, ma da qui anche la scelta di porre a confronto Canova, ritenuto emblema dell’ordine, della purezza, dell’armonia formale, con le opere di artisti che, battendo bensì tutt’altre strade, pur serbano – più o meno consapevolmente – tracce di quel che Canova ha lasciato. E se qualcosa di Canova si rinviene in opere tanto differenti, ragiona Sgarbi, vuol dire che un germe di queste opere deve pur ritrovarsi in Canova. Ecco perciò alcune magnifiche fotografie contemporanee rivelare, dei gessi canoviani di Possagno, le impreviste imperfezioni, le insospettate usure, perfino la potenziale e finora rimossa valenza erotica. Perché non vi è l’innocenza senza il peccato, non vi è il bianco senza il nero, non vi è il bene senza il male. E non v’è morte là dove non vi è vita. E dunque, opina Sgarbi (e ci convince!), ove mai Canova sia da ritenersi artista morto, ciò implica che in lui sia presente anche la vita, poiché tutto ciò che muore, prima di morire, deve necessariamente essere nato. E deve quindi, necessariamente, aver vissuto.
2 commenti su “Vittorio Sgarbi: la vita e la morte in Antonio Canova”
Grande Vittorio! Unico! Magnifico! Insostenibile ! ♥️♥️♥️
Insostenibile nel senso che nessuno può sostenere un confronto con la sua magistrale cultura e sensibilità.