Lo sappiamo bene: ogni direttore di giornale rimosso dall’editore, ogni giornalista Rai sempre e comunque al cambio della maggioranza di governo, (quasi) ogni intellettuale italiano sostituito nel suo incarico in un ente culturale pubblico e non di rado in una struttura culturale privata, si proclama vittima, non del destino cinico e baro, ma della volontà prevaricatrice della politica e dei colleghi alla politica asserviti. E più di sé stessi considerano vittima del loro perduto posto la libertà di pensiero, di stampa e la stessa democrazia.
Il pendolo destra-sinistra delle funzioni e del potere giornalistico-intellettuali è talmente regolare, preciso e plateale da delegittimare pressoché a priori questo tipo di proteste recriminatorie. I lamentanti avevano, diciamo nel 90% dei casi, preso il posto di altri di opposta affiliazione che si erano al tempo a loro volta vigorosamente lamentati. Questo non significa che sia giusto il costume di mettere gente propria, o di area come pudicamente si dice, a ricoprire ruoli non solo politici, il che è ovvio, o amministrativi e burocratici, un po’ meno ovvio, ma anche incarichi nel campo della cultura e dell’informazione. Significa solo che il vittimismo dei rimossi o degli esclusi è nella quasi totalità dei casi un rito ipocrita.
Nel campo della cultura il vittimismo più diffuso è quello dei professori, studiosi, sovrintendenti, presidenti e direttori di musei e via dicendo, di destra. Non mi sfiora nemmeno l’idea di riproporre lo stucchevole dibattito sulla sopravvivenza o meno della destra e della sinistra nella nostra società e nella nostra politica. Esistano o meno al giorno d’oggi queste secolari categorie, resta il fatto che in Italia chi si occupa di cultura, soprattutto se con ruoli dirigenziali, e purtroppo anche di informazione, o è vicino alla destra e dalla destra prescelto, nominato, difeso, o è vicino alla sinistra e da questa prescelto etc.
Il vittimismo più diffuso è a destra perché è innegabile che la cultura di sinistra abbia largamente dominato nel secondo dopoguerra. In pratica mentre il mondo cattolico, centrista, liberale, e in parte quello di destra, controllavano le banche e la finanza, le forze dell’ordine e le forze armate, l’industria pubblica e privata, la sinistra, forte della sua lungimiranza gramsciana, puntava tutto sui teatri, le università umanistiche, l’editoria, le riviste et similia. Fino al predominio nei dibattiti culturali e non solo a partire dagli anni ’60 di quei testi marxisteggianti di teoria politica, di analisi della società, di critica letteraria e artistica, di proclamazione di intenti delle istituzioni culturali che, a rileggerli oggi, ci fanno chiedere se quasi tutti gli intellettuali non fossero rimasti vittime del sonno della ragione. Ecco quindi che chi faceva “cultura di destra” si è ritenuto emarginato, ghettizzato, bullizzato. In parte lo ritiene anche adesso, nonostante la Rai meloniana, i ministri della cultura vagheggiatori in gioventù di irrazionalismi evoliani e fascisteggianti, il presidente della Biennale che nel suo romanzo giovanile freme di emozione parlando dei Tedeschi nel ’43. Nonostante questo, e altro, che ha ovviamente scatenato il vittimismo dei sinistri. Ho ripreso in mano un libro di Ernesto Galli Della Loggia pubblicato nove anni fa: Credere tradire vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica. In questo lungo e denso volume Galli Della Loggia ci dà quasi una summa del suo sentire e della sua interpretazione del percorso storico, sociale e culturale dell’Italia moderna e contemporanea. Non intendo qui discutere o analizzare il testo di Galli Della Loggia, molto ben scritto, molto general-generico come tutte le sue pagine, che nel corso degli anni hanno assunto sempre di più il carattere di testi asseverativi delle sue tesi intuitivo-soggettive, senza quasi mai darci l’ebbrezza di leggere, non dico delle dimostrazioni, ma almeno delle motivazioni un filo analitiche di ciò che sentenzia. Né intendo dire alcunché sulle strutture concettuali e linguistiche portanti della cultura di destra, di cui Galli Della Loggia è portavoce nitido e paradigmatico.
Mi pongo solo una domanda tremendamente banale, direi quasi di bassa lega, connettendomi al mio precedente discorsetto sul vittimismo. Il professore, nel criticare con forza il dominio della cultura di sinistra in Italia e nel criticarne con ancora maggiore forza la prepotenza emarginatrice nei confronti di chi la pensa diversamente, inserisce spesso e volentieri sé stesso e la propria vicenda personale di intellettuale appunto discriminato. Ebbene, nella battaglia degli intellettuali per ottenere riconoscimenti di svariato tipo, Galli Della Loggia può lamentare qualche sconfitta e qualche emarginazione. Ma mi domando: come fa a ritenersi vittima dell’Italia cattiva di sinistra un uomo che ha avuto tutte le porte aperte nei vari ambienti di diversa fede politica della cultura italiana, che ha ottenuto insegnamenti universitari fino a diventare professore ordinario e financo preside di facoltà, che è stato cooptato in consigli direttivi e in programmi Rai, e che, notate bene!, ha da oltre trent’anni a disposizione la prima pagina del più importante quotidiano italiano; come fa un uomo con un curriculum del genere a sostenere, tra le righe ma non troppo, di essere un colpito dall’emarginazione da parte della cultura di sinistra? Non ci appare proprio come una povera vittima.
Azzardo qualche scontata ipotesi. Quella del vittimismo è non di rado quasi una sorta di riflesso condizionato della cultura e dell’informazione italiane, magari è così anche altrove, ed è, come ho detto, particolarmente forte nella destra proprio per la lunga e nota chiamiamola egemonia della sinistra. Ci sono senz’altro anche dell’autocompiacimento e la convinzione che ai lettori conservatori, anch’essi regolarmente recriminanti nei confronti di un’Italia, secondo loro, sempre dominata dalla sinistra nonostante i decenni democristiani più quelli berlusconiani, questo tipo di vittimismo piace e li corrobora. Galli Della Loggia è troppo intelligente e preparato per non saperlo.
In più c’è la legge degli ex. Gli ex più radicali contro chi non ha fatto il loro stesso percorso sono in genere gli ex fumatori, in buona misura gli ex religiosi, molto di frequente gli ex comunisti. Galli della Loggia non è mai stato comunista ma ha mosso importanti passi giovanili in quell’area politico-culturale e ha anche detto di aver votato per il PCI.