Anche se abbiamo abbattuto le loro statue,
anche se li abbiamo scacciati dai loro templi,
non per questo gli dèi sono morti.
Sono versi, di indicibile capacità suggestiva ed evocativa, di Konstantinos Kavafis, il poeta greco vissuto per qualche decennio nell’Ottocento e per qualche altro nel Novecento. Del sogno nostalgico e struggente per il passato autentico e fantasticato dell’Ellade ha fatto il tema dominante del suo canto.
E io so di essere l’ultimo arrivato di una infinita, millenaria schiera di filelleni, di persone che si sono perdute e si perdono, anche in maniera acritica, mitologica, in questo sogno nostalgico e struggente, e hanno ammirato sbalorditi il popolo che ha pensato cose che gli altri popoli non hanno pensato e ha creato una bellezza mai eguagliata dalle altre genti. Il popolo e la sua terra. I filelleni di ogni epoca hanno fatto dell’eterna grecità uno stato dell’animo, un vagheggiato superamento della nostra angustia, delle nostre nebbie, della nostra pesante materialità e della nostra ordinaria rassegnazione.
Eppure, i versi di Kavafis sono veri, descrivono qualcosa di assolutamente reale, di pienamente esistente. È vero: gli dèi non sono morti. È vero: amano ancora la loro terra e questa terra li ricorda ancora. È vero: nelle albe d’estate nell’aria varca un èmpito della loro vita. Basta aver trascorso un qualche momento in un qualche punto della Grecia, in un mezzogiorno arroventato, frastornati dalle cicale, intravedendo il mare tra i tronchi nodosi degli ulivi, per rendersi conto, oltre ogni ragionevole dubbio, che gli dèi sono vivi e la loro presenza si percepisce con nitore dentro di noi, si percepisce sui monti, tra le scogliere e nel vento incessante che gonfia le vele del viaggio e della conoscenza.
Fai voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d’estate
Che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra) in porti sconosciuti prima.