Mi chiamo Alessio Interminelli, ho trentadue anni e, nonostante sia nativo di Lucca, vivo a Siena da più di un lustro. Non per mia scelta, sia chiaro. Ma solo perché Pia è senese. E, si sa, i giovani sono più propensi alla migrazione.
Il rubinetto del bagno perde.
Pia asciuga le piastrelle con un panno celeste che poi piega in quattro. Negli ultimi tempi la piegatura è storta. E il panno resta trascurato come un cadavere di una blatta marina.
Al risveglio le tremano le mani lentigginose. Dice che è colpa del magnesio. A pranzo mastica piano e osserva i cibi come fossero questuanti inopportuni. Di sera il rossetto si consuma sulle labbra tagliuzzate. Lei forse lo sa, ma non se ne cura.
La pelle intorno agli occhi è simile alla carta ingiallita dei libri comprati quarant’anni fa.
Pia non è una santa.
Sa bluffare, sa svicolare, sa inebetirsi, sa come far sentire in colpa con una frase apparentemente neutra: «Fai pure, se ti fa stare bene».
O peggio: «Non mi devi niente, non me l’hai mai promesso».
Venedico parla poco, sfoggia raramente il suo accento bolognese, ma ascolta con la disponibilità tipica dei camerieri emiliani.
Mi incontra in un pub privo di insegne, un pub restio alla regolarità temporale.
Mi segue mentre lodo con astuzia le virtù di Thaïs.
Non chiede di soffermarmi sui particolari. Sembra concentrato sul senso dello sproloquio. Simula un interesse scientifico. Ma lascia cadere, così, all’improvviso, parole monolitiche («Mi pare giusto offrirsi qualcosa che manca, anche solo per ricordarsi che si può») seguite da ammiccamenti glaciali («Capisco la fatica della bellezza consumata»).
Solo a notte fonda, come fosse un dannato frustato da demòni annoiati, mi porge un numero di telefono. Bofonchia: «Vive sola». Non trattiene uno sbadiglio complice.
Thaïs ha ventiquattro anni. Possiede delle energiche mani affusolate, un appetito aggressivo, delle turgide labbra carnose, degli occhi esplosivi. Ride forte, dorme poco, cambia umore come fosse una borsetta comprata in spiaggia, arraffa i reggiseni da Oviesse.
«Se ti va, resta pure».
Durante il coito, constata senza gemere: «Hai l’espressione di uno che si giustifica».
Messo alle strette, affermo beffardo che con Pia è diverso.
Thaïs mi chiede ghignando: «Pia? Di nome e di fatto?».
Spegne la luce non incuriosita da un’eventuale replica.
Pia non nasconde né rinfaccia.
Sembra un’attrice in pensione che guarda dalla platea, annoiata, una messa in scena scadente della Locandiera.
Ultimamente inserisce in un vecchio Marantz dei cd di Sibelius e di Satie. Cammina scalza.
Tra le mie camicie ha trovato una collanina attica.
Un commento rivolto a sé stessa: «È troppo colorata».
Un commento rivolto a me: «Piangerai, è chiaro, ma solo per convenienza».
Piove su Siena, sui cipressi delle Crete, sulle donne, sui bambini, sui gatti, sui cartelloni pubblicitari, sulle contrade aride, sulle menzogne. Piove anche sui suoi piedi dai talloni induriti.
La pioggia la spinge ad accompagnarmi nell’androne senza perdere la consueta compostezza da bibliotecaria.
«Ricordati che il corpo non dimentica»
Vivrò con Thaïs in un bilocale vermiglio dal tetto basso, dalle pareti screpolate, dalle finestre a forma di oblò, dall’aria stagnante della noncuranza condivisa.
Thaïs si laverà i denti ancheggiando e comprerà taccuini per accontentarmi.
Non chiederà niente. Non offrirà spiegazioni.
Sghignazzerà molto, questo sì. Berrà l’ouzo per mettere in mostra i piedini soffici.
Già prevedo che, un attimo prima dell’orgasmo, serrerò sempre gli occhi per evitare di specchiarmi.
Un giorno, è inevitabile, vedrò arrivare un pacchetto con dentro un panno celeste non piegato.
Sulla carta scorgerò scritto a penna: Annegate nella merda.