Non posso estendere l’esemplificazione dell’imprevidibilità futura su altri parenti stretti. Sono una figlia unica senza figli. Sono pure single ormai da sette anni. E mi sembra superfluo aggiungere il sottinteso. Anzi, meglio, l’implicito: Se una donna quasi sessantenne collega l’assenza di maternità con una relazione conclusa dopo i cinquant’anni, significa che non è straziata o indifferente per l’abbandono da parte di un marito o di un compagno, ma lo è semmai per una rottura insanabile con una moglie o con una compagna.
Risulterebbe più semplice definirsi direttamente lesbica? Forse, ma mi sembra una definizione troppo vaga e per di più piattamente onnicomprensiva. L’universo lgbtqia+ è molto più variegato rispetto allo sgabuzzino di definizioni perentorie dove soffocano coloro che utilizzano pochi vocaboli antiquati vantandosi della mediocrità del dichiararsi normali.
Tuttavia, rivendico con determinazione, ma non con stolido orgoglio, la mia totale noncuranza verso le opinioni altrui. L’esclamazione più presente tra le mie labbra è sticazzi! Ma, poiché giudicherei puerile proiettare il mio io maturo sul mio io adolescenziale, sarei una bugiarda se affermassi che sticazzi mi abbia accompagnata negli anni della scoperta progressiva del mio eros. D’altro canto, quasi tutte le coetanee, per così dire, non allineate sono finite in analisi. Alcune hanno gettato la spugna e si sono trasformate in madri e consorti frustrate, altre – le più coraggiose e le più caparbie –, sebbene talora sull’orlo del knockout, non hanno mai rinnegato la propria natura. Io mi inserisco in questa seconda categoria, quella delle determinate resilienti più delle pugili incassatrici, ma evito le pose eroiche da gay pride, baracconata che, in realtà, conferma un orientamento sessuale vissuto male, un’esplicitazione antropologica non accettata. Insomma, una baracconata – in fondo malinconica nella sua stucchevole gioia esibita – non dissimile dalla non accettazione tormentata che ha, per l’appunto, reso infernali i miei sedici anni.
Ebbene, per venire al sodo, io colsi già l’anno precedente, quando ero quindicenne, la mia identità. Ma a inizio anni Ottanta era difficile confessarlo a sé stesse non meno di quanto lo fosse rivelarlo agli altri. L’angoscia maggiore di un padre di qualsiasi classe sociale era quella di avere un figlio frocio. Non esisteva nessun timore per la figlia, dato che non entrava nell’alveo delle ipotesi la prospettiva del lesbismo. Al limite un padre guardava con compiacenza due ragazze che si amavano e scambiava le loro effusioni come affetto femminile. Chi era più scaltro e colto coglieva l’infatuazione ma la giudicava una fase transitoria di confusione di breve durata.
Era di certo meno complicato a quei tempi confessare di essere gay che rivelare di essere lesbica (sempre per usare la terminologia dello sgabuzzino su citato). Nel primo caso si avverava un incubo, nel secondo crollava il palazzo delle certezze con la stessa dolorosa perplessità con cui si osservano le macerie di un edificio reale distrutto da un terremoto in una zona non sismica.
Ma io divago.
Torno a bomba.
Colgo senza ulteriori indugi ed esplicito il problema principale dei miei sedici anni: A me i ragazzi destavano ribrezzo, con quella peluria destinata a diventare dei peli disgustosi, con quel cattivo odore da sviluppo ormonale, con quel loro esprimersi tramite grugniti, con quel corteggiare mediante le frasucce più trite e deprimenti mentre gli occhi animaleschi luccicavano di lussuria.
Al contempo dovevo giustificare questa repulsione a me stessa per non ammettere la verità. E, come molte altre ragazze nella mia condizione, mi convinsi che la mia fosse una scelta ideologica. Rifiutavo gli uomini perché, come si direbbe oggi, tutti quanti erano marchiati da un’innata essenza patriarcale.
Purtroppo, mi innamorai di una compagna di classe bella come un’attrice hollywoodiana. E io non ero bella. Non sono mai stata bella, spigolosa come sono, emaciata come sono, goffa come sono, occhialuta come sono.
Tuttora evito di guardarmi allo specchio per più di dieci secondi. Che senso avrebbe riconoscersi nel riflesso di uno sgorbio? Ma ciò non mi pesa. Non mi è mai pesato. Non perdo e non ho mai perso tempo tra rossetti, rimmel, ombretti, ciprie e cazzate simili che confermano il senso di inferiorità interiorizzata in molte donne. Porto i capelli corti, brizzolati. Sono una professoressa di latino e di greco. A scuola molte colleghe sono in sintonia con me. E vanno avanti in attesa della pensione. Di quel blocco esistenziale bramato in maniera del tutto istintuale.
Continuo a divagare.
Chiedo venia.
Probabilmente l’innamoramento per Patrizia – così si chiamava la compagna di classe bella come un’attrice hollywoodiana – è rimasto radicato nel mio cervello così profondamente da essere entrato in simbiosi con i pensieri. O, in altri termini, da risultare un sottofondo perpetuo su cui si proiettano le gioie e le ossessioni che plasmano, notte e giorno, evanescenti silhouette prevedibili. Ma, fortunatamente, tale sottofondo è divenuto innocuo. Forse parrebbe paragonabile a una zavorra e a nient’altro. Una zavorra risibile, concordo, che non ha mai permesso una navigazione serena alla mia esistenza di naufraga.
Patrizia incarnava la perfezione femminile. Una teofania che mi avrebbe indotto a inginocchiarmi, sospirando, a ogni suo sguardo. Una forza centripeta che mi risucchiava anche mentre dormivo. Una prova rutilante dell’importanza del mio esistere. Come avrei potuto astenermi dal non dichiararmi per quanto fosse evidente la sua eterosessualità? Parlava sempre di Lollo, poi di Nicola, poi…
Poi non so, cambiai scuola dopo le vacanze natalizie per evadere dalla torre della sofferenza priva di feritoie palingenetiche, convinta, com’ero, che la fuga mi avrebbe sottratta all’ossessione.
Erravo, l’ossessione crebbe per la lontananza dagli occhi seducenti, dal nasino alla francese, dalla bocca da riempire di baci, dal collo da succhiare, dai minuscoli seni turgidi che invitavano alla regressione infantile, dal vitino sinuoso che innescava desideri intimi, dalle gambe lunghe eternamente estranee alla cellulite, dall’aroma d’ambrosia.
Rinchiusa nella camera della sofferenza, tra riviste femministe e poster che ritraevano i pollici e i medi che formavano una rivendicazione vaginale, cedetti. La chiamai più volte al giorno. Senza attendere la risposta, attaccavo dopo uno squillo, appagata dalla certezza che lei lo avesse udito. Innocuo palliativo che bastò per forse un mese ma che non scalfì il tormento dell’incompletezza.
Mi diedi forza, aspettai il pronto e finsi di avere composto il suo numero per sbaglio. Stratagemma grossolano per rientrare nelle grazie mai esistite. Lei mi liquidò frettolosa.
Ressi un mese di struggente silenzio versicolore. Il mese più devastante della mia adolescenza.
Era inevitabile l’esplosione nemmeno fossi una molotov abborracciata distrattamente.
Mi appostai sotto casa sua. Ebbi la visione mistica di lei che usciva luminosa dal portone. Inevitabile bloccarla. Inevitabile scaraventarle addosso delle dichiarazione di amore seppure fossi conscia che lei si sentisse lordata da spazzatura putrescente. Il risultato? Degli insulti, uno schiaffo e i miei occhiali che volarono sul marciapiede.
Rimuginai sotto il poster delle dita che formavano una vulva, trascinandomi trasandata avanti e indietro, gridando frasi sconnesse tra i singhiozzi della disperazione inconsolabile.
Tentai la via della scorrettezza blasfema.
Tentai di defraudare la sua superiorità calunniandola per riacquistare una dignità fasulla. Le scrissi una lettera piena di improperi, nella quale le davo della piccola borghese, della donnetta serva dei cavernicoli, della masochista in cerca di una supremazia maschile, della patetica lettrice di romanzi tardo ottocenteschi.
Lei non rispose.
Diedi letteralmente delle testate al muro come se quell’atto rientrasse nel contrappasso del mio affronto (non lo avevo mai raccontato prima d’ora). Il senso di colpa attorcigliò il corpo sgraziato.
L’ineluttabile mi schiacciava. Io scrissi una lettera in cui leggevo la crisi – solo mia – come frutto di un fraintendimento. Una lettera all’apparenza distaccata, in realtà colma di uno strazio cosmico.
Lei non rispose.
Fino a venti anni fa veniva lodata chi assillava una donna (o un uomo) per un amore non ricambiato. L’insistenza molesta veniva valutata come passione travolgente. E io non ero nient’altro che una personificazione della passione travolgente. Vi assicuro che non ero impazzita. Ero un’eroina tragica che, nel mezzo di una crisi identitaria, si strappava i capelli per il mai-possibile che risultava, tuttavia, nella sua essenza, l’immaginaria meta della felicità diuturna.
Non esisteva la parola stalker. Io, a distanza di più di quarant’anni, osservo la crisi sfacciata che mi devastò – e che adesso mi devasta quasi rispettosa – con tenerezza, senza nessun pentimento ipocrita.
Se fossi in grado di incontrare me stessa a sedici anni – lo so, è superficiale proporre delle situazioni fantasmagoriche –, ebbene, mi abbraccerei, mi congratulerei per il calore delle mie emozioni (per quanto quel calore fosse ustionante), mi inciterei a continuare perché, come afferma Boccaccio, è meglio peccare e pentirsi di non peccare e pentirsi di non avere peccato.
Adesso non sono sola. Ho mentito. O almeno non mi sento sola. Insieme a me vivono un esercito spaurito di fantasmi, una madre sorda, degli aoristi indigesti, delle disarmonie costanti, delle insignificanti ricerche del non senso di tutto ciò che mi circonda, un convoglio stipato di sticazzi.
1 commento su “Letizia Rizzuto”
Mi è piaciuto questo racconto, inventato probabilmente, oppure no..