Chiara Valerio, Chi dice e chi tace, Sellerio editore, 2024
Una riflessione non tanto sul romanzo di Chiara Valerio in sé, quanto su quello che potremmo chiamare, con espressione di generica, abusata e falsificante banalità ma in grado comunque di rendere l’idea, il mainstream rituale di (buona) parte della critica e dell’editoria.
Chiara Valerio è un personaggio ormai consolidato della narrativa italiana, non solo autrice di buon talento ma anche operatrice culturale e manager editoriale. E’ quindi pienamente nel giro. Questo suo essere nel giro, tra l’altro in una posizione definibile come progressista, determina la gran parte della ritualità critica nei suoi confronti, anche quella contro.
Il suo romanzo Chi dice e chi tace è un dignitoso racconto del tipo di quelli “che vanno adesso”, confezionato con tutti gli ingredienti, proprio tutti, che permettono a chi scrive un romanzo di sentirsi tranquillo per quanto riguarda l’accettazione e il gradimento editoriale. Narra della morte subitanea e in buona misura misteriosa di Vittoria, una donna affascinante di provenienza alto borghese, già medico di valore e già sposata, che aveva abbandonato anni prima la sua vita romana per trasferirsi a Scauri, cittadina del basso Lazio, per vivere in maniera più modesta e mimetizzata con una giovane compagna, Mara. Una sua amica, l’avvocato Lea Russo, si convince che la morte di Vittoria non sia dovuta a un incidente e così comincia a indagare nella vita di lei, anch’essa misteriosa, arrivando a ipotizzare un suicidio. Lea, moglie e madre, da tempo presa anch’essa da latenti brividi di attrazione nei confronti di Vittoria.
Gli elementi della ricetta del perfetto romanzo made in Italy in linea con la corretta contemporaneità ci sono dunque proprio tutti: le donne come protagoniste prevalenti della vicenda – l’omosessualità, in questo caso femminile – il suggerito orientamento politico a sinistra dei personaggi significativi – un po’ di giallo – la memoria del territorio (Chiara Valerio è di Scauri). A ciò si possono aggiungere qualche, a mio avviso voluta, sconnessione dello stile e anche della sintassi, qualche cosciente sciatteria stilistica inserita rapsodicamente per suggerire un approccio modernista alla vita quotidiana e qualche passaggio non consequenziale, qualche salto improvviso. Elementi che sembrano quasi imprescindibili in chi nell’oggi correct vuol far intendere di star facendo letteratura di qualità.
Se si hanno appunto un buon talento come Chiara Valerio, ma alle volte anche solo discreto, e una sciolta capacità di muoversi nel giro, il che non guasta, non si può sbagliare. E il libro di Chiara è giudiziosamente confezionato per far parlare di sé, concorrere a premi importanti e di conseguenza vendere. Tutto logico, tutto normale. Ciò nonostante, si riesce ancora a restare (bonariamente) stupefatti di ciò che su operazioni del genere si scrive da parte della critica, termine, come è noto, oggi indicante territori sconfinati e ultra variegati.
Si tratta di un tipo di romanzo che viene in genere ben accolto, in particolare appunto da donne, da progressisti, da colleghi dell’autrice nella collocazione esistenziale, dai terrorizzati dallo stigma che può arrivare dal mainstream. Viene invece giudicato negativamente da destra, magari veicolando l’avversione ideologica di pancia attraverso critiche anche pesanti sulla prosa, sul linguaggio del romanzo; valutazioni che ritengo artificiose, dato che fanno passare per incapacità delle scelte stilistiche, come ho accennato prima, volute e coscientemente nello spirito dei tempi.
Ma i più si mantengono nel giro. Qualcuno parla di rara intensità. Altri di sfida (sic: sfida!) alle convenzioni del giallo. C’è chi aggiunge: non è un semplice giallo, è molto di più. Per altri Chiara ci dà un ritratto picassiano di Vittoria. E ancora: Lea si spinge lungo l’arduo sentiero della conoscenza. Il lettore è condotto in un intricato sentiero di esplorazione dell’animo umano. Profondità dell’analisi psicologica. E, diciamo pure, chi più ne ha più ne metta.
Il romanzo, ci segnala qualcun altro, ha suscitato dibattiti e critiche nel panorama letterario italiano. E perché mai, mi viene da chiedere? Cosa ha di notevole per essere oggetto di dibattito culturale, per essere considerato qualcosa di più di un normale, fine e piacevole oggetto di consumo letterario (detto assolutamente senza alcuna accezione negativa)?
Meritava lo Strega? Senz’altro si, si risponde chi si è posto questa domanda. E se lo Strega non fosse quello che è ultimamente diventato, sia la domanda che la risposta ci apparirebbero vagamente surreali.
Da parte mia, quindi, nulla di negativo nei confronti di Chi dice e chi tace. Né nei confronti di Chiara Valerio, che è colta e abile. Solo una, ennesima, constatazione dei riflessi condizionati ormai dominanti nel modesto rito della, chiamiamola ancora così, critica letteraria italiana.