Semiramide: la nevrotica, inarrivabile morbosità di Rossini

Sarà stata anche una grande sovrana, come sostiene Erodoto. Ma alla leggendaria Semiramide, chissà forse la regina assira Shammuramat, moglie del re Shamshi-Adad V e reggente per suo figlio, Addu-Nirari III, storici, pensatori e poeti maschi non hanno risparmiato nulla. Un classico, un archetipo: la donna di potere affascina e terrorizza ed è, pressoché sempre, per definizione, perversa, assetata di dominio, inestricabile crogiolo di lussuria smodata e di crudeltà. Le due cose vanno sempre insieme.

Maschicida del marito, amante incestuosa di suo figlio, inventrice degli eunuchi a corte, legislatrice indegna, forse anche suicida. Donna dalle infinite relazioni amorose, con l’abitudine poi di sopprimere chi l’aveva soddisfatta, come scrive Ctesia di Cnido. Donna di bellezza straordinaria e di animo audace, come ci racconta Diodoro Siculo nella sua Biblioteca Storica. Demonizzata, detestata e calunniata dagli scrittori greci come da quelli cristiani, da Sant’Agostino, odiatore seriale delle femmine, a Dante, a cui invece le donne non dispiacevano affatto, e non solo. Poi, a partire dal Settecento, eccola protagonista di un numero sorprendente di opere liriche, di quelle che venivano composte a decine e decine per i teatri di tutta Europa, e popolate da eroine ed eroi mitologici, da regine e re esotici, da Alcesti, Zelmire, Demofoonti, Farimondi e Olimpie che portavano gli spettatori al delirio con i trilli, gli acuti, i gorgheggi sfrenati delle primedonne e dei castrati.

La regina assiro-babilonese piaceva. Piaceva a Vivaldi, a Gluck, a Jommelli, a Porpora. Fino a Rossini, che di questo teatro lirico dal belcanto vertiginoso è stato l’ultimo e sublimissimo punto di arrivo. Il 3 febbraio 1823 presentò al pubblico del Teatro La Fenice di Venezia la sua Semiramide, ispirata a un testo di Voltaire. Ma qui il tormento psicologico del personaggio, le astiosità patriarcali, le malvagità inquietanti della femmina dominante, così come la sostanziale distanza dall’icona di femminilità enorme e malvagia, il pentimento e la ricerca del riscatto morale, la morte trasfigurante non c’entrano più nulla. O meglio: c’entrano, ci sono, ma retrocedono, tutto retrocede, a sfondo quasi sbiadito davanti alla sublime morbosità di una musica senza precedenti e, probabilmente, senza uguali.

Nell’opera ci sono due duetti d’amore, anche se molto, molto sui generis, tra Semiramide e Arsace. Sono madre e figlio. Ma mentre nel primo duetto, Serbami ognor si fido il cor con a seguire Alle più care immagini, i due non sanno di essere madre e figlio, nel secondo, Ebben, a te: ferisci con a seguire Giorno d’orror e di contento, l’hanno appena tragicamente scoperto. La contorta, estenuata, nevrotica morbosità, che attraversa tutto Rossini, in questi duetti raggiunge la sua acme.

Cantano madre e figlio e cantano due donne, probabilmente all’epoca una donna e un castrato, in una sorta di ambigua tragedia degli equivoci: lei ama lui non sapendo che è suo figlio; lui è felice perché crede che lei, la sua regina, ignara di essere sua madre, gli stia per concedere in sposa la principessa da lui amata riamato, mentre in realtà la regina sta parlando di sé stessa e del suo amore per lui. Entrambi, pensando di essersi capiti, tripudiano prefigurando il meraviglioso futuro che li aspetta. Alcune scene dopo scoprono la verità: lei è disfatta e pensa di meritare la morte (tra l’altro nell’antefatto dell’opera aveva ucciso il marito); lui non ardisce punirla e vendicare il padre perché lei è pur sempre sua madre. Per i due è insieme un giorno d’orrore e di contento.

E questi sconvolgenti ed edipici equivoci si dispiegano in un belcanto estenuato e lussurioso, con rotonde e languide armonie di terze e di seste, ultimo splendente frutto della follia canora della tradizione barocca italiana. Senza un fine, senza un ideale che non sia non puramente sonoro, senza un condizionamento etico, politico, valoriale; all’altro capo del mondo rispetto a ogni passionalità, a ogni impegno ideologico del romanticismo. Solo l’amore libero per i suoni, per il canto e l’armonia, per la bravura spericolata della voce umana, per la bellezza. Solo una libidine estetica talmente estrema da provocare brividi nebbiosamente autodistruttivi, da suscitare una disincantata, strisciante e sapiente, in una parola: rossiniana, pulsione alla dissoluzione.

NdA – Alcuni passi di questo articolo sono tratti da pagine che avevo scritto per la prima stesura del mio romanzo Estasi infame, poi eliminate nel corso della pubblicazione.

 

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