Canto dall’isola di cemento 

La mia rotta è andata in patatrac, ora sono su di un’isoletta di cemento, in out in mezzo a un traffico che mi sfiora: un casino, tutto un clacson.

Eppure anche qui dall’isola intravedo il trotto spavaldo di una narrativa che vira verso le cassapanche, verso le madie, verso i tiretti, i diari, gli album di famiglia, i corredi, le prime comunioni, i telegrammi, le liste nozze, i collier: verso le cosine famigliarine tra lenzuola tovaglie brodaglie anticaglie e sopratutto lagne e piagnonissimi segreti, stupefacenti non detti, traumi, dispetti, cedimenti, eredità, bomboniere.

Nonni Sandokan con trascorsi inauduti, zii al servizio segreto di Sua Maestà, genitori tremendi, commozione affettata spessa.

Un melodramma in ogni tinello, seriosissimamente acconciato, non senza sperpero di lacca (abbondantissima) per tenere fermo tutto il cuccuzzaro dolente, quindi in pratica siamo quasi quasi a un romanzo per ogni genealogia, con preistorie affettive recuperate spesso e volentieri da io narranti ripieni di amarezza e apprensione.

Tutti rubinetti aperti. Nulla di asciutto, meno che mai di brillante, nemmeno lo stile, che semmai è prosa tirata dritta con la brillantina: l’estetica del gel, per dare la giusta piega alle cose. Certa letteratura è conciata male perché la si acconcia troppo per bene. Dal gel alla gelatina il passo è breve.

Ah, Malerba lo scrisse in quel suo racconto uscito su “Linus”: attenti al cuore, all’amore, ai sentimentoni, al fast food del dolore altamente gestibile con i buoni sentimenti. Come dire: fate della letteratura qualcosa di nuovo, non fatene il volto nuovo dei vostri cataclismi, dei vostri eroismi, dei vostri gargarismi, dei vostri borborigmi. Come non detto.

Di conseguenza oggi servono stomaci di tungsteno per digerire tanta pastasciutta romanzotta così sugosa e ben pensante e scritta beninissimo, che non è un modo eccentrico per dire benissimo ma che sta invece a significare benino elevato a potenza. Così la via di mezzo diventa la strada maestra e su una simile via di grandi firme ne trovi quante ne vuoi.

Sicché da lettori più o meno in buona fede, pur se ipocriti a dire del signor B., pensiamo di volare alti come fossimo su dei dirigibili e invece va a finire che ci ritroviamo a cavallo di grandi supposte piene di sé (Il dottor Stranamore, variazione sul tema). Occhio alla glicerina nei romanzi, non ogni fine giustifica il mezzo e tuttavia di un mezzo romanzo non si vede la fine.

E dove li metti (per dire d’altro che sempre da qui vedo) i valentissimi neonati alle lettere, già addestrati, agguerriti, conformati allo standardino che li conferma e conforta nel fare il racconto oppure il romanzo?

Si scrivevano un tempo i libri ed eventualmente poi se ne dava pubblica presentazione mentre oggidì è proprio l’inverso, ossia il libro lo si scrive per poterne fare presentazioni, preferibilmente in posa ispirata e compresa nella parte, non senza ciuffi, gambe accavallate, gestualità circensi. La televendita come archetipo. E nei sottotitoli questa specie di non detto: capisco di più e per ciò racconto: ascoltami e sarai migliore. Taumaturgia portami via.

Esiste una brutta narrativa molto saccente e molto presuntuosa la quale induce chi ne è fiero esercente a reputarsi titolare di svariati superlativi e tuttavia siamo solo dinanzi a roba a buon mercato, il mercato essendo quel che oggi acconsente all’ostentazione di certi status: nemmeno tanto per le copie effettivamente vendute (che poi chissà), quanto già per la semplice appetibilità commerciale di storie esteticamente altovendenti e di conseguenza ipovedenti in senso letterario. Di cosa sto parlando? Di “una semplicità elaborata come un romanzetto a sensazione”: è Padre Brown di Chesterton (traduzione di Sara Caraffini).

Ma poi pure questo fatto delle duecento o trecento pagine per scoprire il dolore o le sue cause primissime, per riandare alle sorgenti della lacrima, per arrivare al punto morto e puntualmente risorto della saga o vicenda o faccenda preferibilmente di stampo per l’appunto familiare, quando nella vita veramente non è così, magari si potessero attendere trecento pagine, fossero pure centocinquanta, per conoscere il dolore, la delusione, la solitudine, il fallimento, la bugia, le corna, i debiti, gli infausti destini che si tramandano e rimbalzano tra ascendenti e discendenti e volteggiano come trapezisti molto in tiro.

Arrivano subito, nella vita, certe consapevolezze, e il resto succede per conseguenza. Oppure sappiate quello che del resto già si sa: ossia che, parlando per lo meno in termini di media ponderata, nelle faccende più tribali e domestiche, tutto, in qualche modo, è cosa più o meno nota, pertanto grosso modo risaputa da tutti, sebbene sovente per i soli famosi sommi capi, ma comunque abbastanza filtrata tra fratelli cugini cognati dirimpettai seconde mogli primi letti ex e nuove fiamme, e inoltre avvocati cravattari e Merumeci vari. A ogni carnevale i suoi Pulcinella con relativi segreti, ma chi scrive non può essere Arlecchino servitore di due padroni: o il mercato o la letteratura.

Effettivamente capita che se ne abbia (o se ne avesse) sia pur vagamente il senso, di certe faccende familiari censurate, o per sentito dire o per intuito e basta o per sospetto, e tutto questo, per vie diverse, converge alla fine nel senso preciso di qualcosa di storto e distorto e spesso di già successo da appurare semmai in quel che di nascosto ancora ne resta.

E così (per diritto o per rovescio) finalmente quel cavolo di cerchio non chiuso smette di trottolare: ed era pure ora, che la finisse, porca miseria: erano anni, forse generazioni, che quell’hula hop a bassa frequenza dei forse che sì forse che no rintoccava come un orecchio gigante, rilasciando indizi sul backstage famiglio e veramente non se ne poteva più.

Non se ne poteva più proprio perché si sapeva già praticamente tutto o magari si sapeva che vi era molto ancora da sapere, a grandi o piccole linee si sapeva, altro che trecento pagine di minestrone (con dado) per capire come va il mondo e struggersi, manco Candy Candy ci scaricasse innanzi la porta di casa le sue bionde sfighe da cartone animato.

Quindi perché, ditecelo, perché tutte ‘ste pagine, tutti ‘sti capitoli, tutti sti dialoghi, per ravanare nel torbido del parentado? Perché? Perché ancora insistere oggi con tutte ‘ste beghe da guardaroba?

Nelle storie che dalla mia isola vedo andare belle sprint, bisogna dispiacersi necessariamente di qualcosa, meglio se qualcosa di grosso, e se non lo si fa sono guai, bancarotta: per violazione del patto di stabilità della tristezza adeguatamente calmierata secondo mercato.

Per la chiamata in causa del lettore non ci si costituisce parte civile bensì parte fragile, dolente, indolenzita: è tutto un colpo della strega, tutto un ohi ohi che male.

Servirebbe un pollaio, per adunarli tutti, questi qui, questi narratori del martirio quotidiano, andrebbe bene se non propriamente meglio pure una voliera, che nella sua stessa ontologia ammette (quanto meno in linea eventuale) che chi vi alberga covi la pretesa di spiccare il volo.

Oddio oggi le partenze sono così top che il volo lo si spiccia, tipo spicciare casa, non si spicca più, acqua passata spiccare il volo, non scherziamo.

Adesso il verbo è spicciare, come dire una cosa da sbrigare, infatti oggi mica c’è tempo per iniziare, oggi il fare è aspirazione già definitivamente data come esito di per sé stante.

“Decollo verticale senza nessuna pista di allungo o di rullaggio”, diceva Tondelli: che i giovani narratori voleva metterli in pista e tirarli su e però certamente non del tipo attualmente più patentato.

Dunque, in chiusura: grazie per le magnifiche rose; o per le pere cotte: grazie per le magnifiche pere cotte d’oggidì. Arbasino ci perdoni. Anche Malerba, anche Tondelli: ci perdonino loro e tutti gli altri che ameremo sempre.

(L’isola di cemento è un romanzo di James Graham Ballard, a suo tempo molto apprezzato, il romanzo, dal firmatario della presente prosa)

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