Pier Paolo Pasolini. Porcili.

Il critico letterario Salinari – militante, partigiano, responsabile della Sezione culturale del Partito comunista italiano – nella sua recensione a Ragazzi di vita uscita su «Il Contemporaneo» del 9 luglio 1955, scrive: «Pasolini ama la «zella»»: la «zella» in dialetto romanesco è un termine per indicare una sporcizia, sudiciume, soprattutto puzza di piedi sporchi (in questa categoria rientra l’adorato Ninetto Davoli di cui tutti i testimoni e amici emancipati, nei loro racconti confidenziali e indiscreti, riferiscono l’incredibile puzza di piedi che si portava dietro, anche per colpa di scarpe di pellaccia finta o fuori stagione, come era per tutti i proletari e i borgatari): questo è l’odore della vita e del corpo e dell’amore per Pasolini, e cioè dell’umanità e della bellezza non borghese (come, per il sesso, la puzza dei pisciatoi del Lungotevere). La pulizia borghese, il buon odore borghese sono il massimo del ribrezzo: perché segni di una presunta superiorità morale e civile. La rispettabilità e il sentimento di sé avvalorata dalla cosmetica.
Franca Faldini, moglie del grande comico e attore Totò, ha confessato che appena Pasolini e Ninetto Davoli uscirono dopo l’incontro per parlare del film Uccellacci e Uccellini, Totò corse a prendere del ddt (del disinfettante) e si mise a spruzzarlo sulla sedia dove si era seduto Ninetto Davoli, dicendo: «Chissà dove dorme questo qua la notte?».

In Porcile Spinoza spiega al giovane Julian che il suo amore per i porci equivale ad una affermazione dell’esistenza di Dio.

L’accusa a Pasolini come porco, attratto da cose zozze: ancora il critico Salinari, nella sua recensione, parla di «gusto morboso dell’autore per lo sporco, l’abbietto, lo scomposto e il torbido», annuncia un tema d’accusa e disprezzo che sarà continuo e ininterrotto e che soprattutto scandalizzerà. Pasolini frequenta gentaccia e la gentaccia, insegna l’intera civiltà borghese, si riconosce da due elementi, subito: da come è vestita male e dalla poca igiene: il puzzo e la sporcizia, così come il cattivo gusto, sono dati fisici e morali: rom, zingari, clochard, accattoni e capelloni, pezzenti, operai, sottoproletari, immigrati ecc. ecc. lo confermano: la propaganda morale e la tolleranza passano per una campagna igienica e cosmetica, anzi la misurazione del grado di civiltà sarà olfattiva e legata a uso di bagnoschiuma, shampoo, detergenti, detersivi, deodoranti e pulizia di pavimenti in cui specchiarsi (la civiltà dei consumi si presenterà sempre più in grembiule bianco sanitario, come apparato salutare e per una ulteriore sensibilità cosmetica). La sporcizia è cosa fisica e morale. Puzze, sporcizia sempre più bandite. La gente va ripulita. È la categoria del Sud, di tutti i Sud, bandita dal perimetro della civiltà: per il nuovo e il lustro. La dittatura borghese e neocapitalistica è anche imposizione di nettezza, gradevolezza, manipolazione dei corpi (in Salò, Pasolini inscenerà lo spettacolo permanente di una tortura e di un sadismo: cibo, moda, modelli corporei, magrezze, salute, pettinatura, standard di vita, beni, vacanze, mezzi di trasporto, tutto ecc.. ecc.. conformismo, omologazione: milioni di esseri costretti e torturati). E sentirsi, di fronte ai modelli imposti, perennemente inadeguati e brutti.

Il sistema del benessere è un sistema coercitivo e sadico. La disciplina dei corpi e il potere sono la stessa cosa. Il potere si misura dalla disciplina dei corpi, dalla mortificazione dei corpi. Ogni insubordinazione va patita come colpa e danno, peccato laico e autolesionistico: il potere, tutto il potere opera per il nostro bene, e per il nostro futuro: congiura alla felicità; costringe ad una felicità senza scampo. Non c’è scampo al benessere e alla salvezza. La società dei consumi è totalitaria e amorevole: l’amore per gli uomini diviene imposizione e coercizione. La cosmesi educa a non tollerare le puzze così come l’indigenza, la povertà, l’usurato, la disgrazia economica, ma soprattutto tutte le idee e le diversità, percepite come difformità, tutto ciò che è fuori da norma, pulizia e rispettabilità è una minaccia alla salvezza e alla salute. Il piano salvifico investe l’intero universo.

Come per la predilezione per il maleodorante, stessa denuncia e analogo ribrezzo da parte della critica e di tutto il mondo beneducato, giornali, Tv, e salotti letterari, per l’uso massiccio da parte di Pasolini nei romanzi e nei propri film di parolacce, turpiloquio, e del dialetto romanesco, in quello che appare un vero e proprio suo disprezzo della lingua pulita, forbita, scolastica , borghese e del parlare bene (e questo fino all’ultimo anno di vita, con, nell’intervento a Lecce su Lingua e dialetto, la condanna assoluta della lingua della televisione e della scuola: a scuola non si è educati, ma ammaestrati). Pasolini diviene nell’arco di poco tempo su giornali e televisioni “quello delle parolacce”, del parlare sporco e maleducato in un clichè ottuso e ostinato (Pasolini non ha mai usato parolacce al di fuori della letteratura alta e del cinema sublime e dei recinti sacri della creazione: lo scandalo, in realtà, sta proprio in questo ma si fa finta di non capirlo). Il dialetto, in Pasolini, ritengono i critici, è così eccessivo, invadente, sbracato che toglie il respiro al lettore.

Per Pasolini il linguaggio è un’emanazione del corpo, appartiene, come tutto, al corpo (tutto è corpo): distruggere i dialetti, imporre una lingua imparata e tecnologica (scuola, televisione) è imporre e garantirsi irrealtà e dunque la possibilità di dire le merci e i loro marchi: il problema linguistico del neocapitalismo è l’instaurazione della irrealtà delle cose da acquistare e dell’imposizione dei bisogni. Perché il Mercato funzioni, tutte le frasi che diciamo devono essere frasi fatte. Perché il Potere funzioni, tutte le frasi che diciamo devono essere frasi fatte.

Il linguaggio autentico per Pasolini è una incisione della carne, non è una rappresentazione ma una realtà: una bruciatura, una graffiatura, una ferita (tutta la poesia, tutti gli interventi pubblici di Pasolini sono timbrature a fuoco, perché una lingua autentica è sempre una pressione corporea). Le parole sono del nostro corpo. La voce è partorita: è un soggetto di fuori, non diversamente dalle unghie e dai capelli. Come il corpo dunque è traumatica, ferita, sgorgante. La reazione alle parole di Pasolini è come una reazione a una puzza. Le parole appartengono alla dolenza del respiro, all’affanno del respiro e alla espettorazione. Per Pasolini la lingua non messaggia.

La scuola ha il compito di tramettere la cultura come cosa inutile e inservibile, come tregua linguistica del mondo e, soprattutto, di mettere in pace le coscienze. Ogni suggerimento, invito, per il nostro bene è imposizione, il potere innalza architetture di intrattenimento all’interno delle quali ci si esercita ad obbedire, a conformarsi, ad adeguarsi. Osservare la televisione diviene osservanza: si osservano così modelli, regole, codici, comportamenti. Si impara a essere felici a quella maniera.

Il segno del disastro è la nostra felicità (l’aperitivo, e la cena, e le vacanze, e le prove del cuoco, e l’abbonamento in palestra con la prima settimana gratuita).

La televisione, nelle mani della destra industriale, si occupa di formare consumatori, nella persuasione della bontà dell’offerta (non c’è inganno, né malevolenza né calcolo): coloro che trasmettono il messaggio credono in esso e sono i primi fedeli e i più pii. La Chiesa dell’Edonè è più feroce di quella di San Pietro nel volere la salute degli uomini. Con dolore si guarda ai reprobi, non illuminati dalla luce trasmessa. Tutto avviene in buona fede, il neocapitalismo crede in quello che reclamizza (i quattro signori del potere, in Salò, in una cornice di perbenismo borghese con i fiori, sedie eleganti, quadri e tappeti si cibano di escrementi golosamente e, anzi, sono predicatori della coprofagia e ne esaltano le grandi qualità). La società dei consumi è in tutto e per tutto una Chiesa, giorno e notte dedita alla nostra salvezza, sempre più fanatica e feroce.

«La verità che non si riesce a dire […] è questa:» – scrive senza più appello Pasolini- «ognuno di noi è fisicamente la figura di un acquirente […]. Il mondo degli uomini come noi li conosciamo nella nostra vita modellata dalla maggioranza, è un mondo di acquirenti. Tutto ciò che ci serve per manifestarci è acquistato. […] Le leggi che ci governano hanno preso forma in un altro mondo cui non appartiene nessuno. Perché siamo sempre noi che, se vogliamo, diventiamo prima sicari e catecumeni, poi maestri della produzione di quelle merci di cui siamo acquirenti. Facendo questo sperimentiamo che non c’è alcuna soluzione di continuità fra suddito e padrone, tra lavoratore e capitalista.» [1]

[1] Pier Paolo Pasolini, Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975, Appunti e frammenti per il IV canto (paragrafo 4).

Per Pasolini, come ricorda Borgna [2], l’avversione alla borghesia è di altra natura. Per la sinistra l’ingiustizia insita nella borghesia consiste nel fatto che la ricchezza è di pochi: se fosse di tutti non ci sarebbe ingiustizia. Per Pasolini invece il comunismo, il sogno comunista non consiste nel fatto che tutti devono diventare ricchi (anzi questo significherebbe solo una borghesizzazione totale e universale), ma che tutti devono essere poveri. La povertà è il valore. La ricchezza non è un valore, mai. Il modello di vita borghese è così forte e persuasivo che si identifica con la natura: è inteso come un modello naturale. I valori borghesi si identificano con i valori naturali e i diritti universali.

[2] Gianni Borgna, “Pasolini tra la meglio gioventù e la nuova gioventù”, in Pier Paolo Pasolini. Educazione e democrazia a cura di Roberto Villa e Lorenzo Capitani. Convegno di Studi, Reggio Emilia 3 marzo 1995.

Grazie alla cosmesi diventare progressisti significa sempre e ovunque poter restare conservatori e assenzienti ai rapporti di forza. Il progressismo come un genere di consumo. E la fine della lotta di classe. Il progressismo sancisce la fine della lotta di classe.

Il neo-capitalismo per i propri interessi cura e garantisce tutti i comfort. L’adattamento.
La gioia del consumo e la felicità coincidono.

Per Pasolini il cannibalismo e la zoofilia sono, emblematicamente, pratiche corporee antisociali, rientrano nella categoria dei raptus mistici della giovinezza: i due protagonisti giovani del film Porcile sono due santi, in fuga dal porcile della società dei padri. Tutte le forme di pestilenza (di diversità fatta carne) sono grazia e benedizione.

Ribellione del corpo e quindi come punizione la condanna a morte (qualsiasi corpo che si sottrae alla codificazione sociale va eliminato, è corpo reprobo: dunque pratica persuasiva e omicidi rituali).

I concorsi di bellezza non differiscono in nulla dalla sfilata e scelta per il culo più bello da sodomizzare che vediamo in Salò o dagli apprezzamenti dei giudici sulla forma delle vittime: per cui l’essere magri significa possedere la grazia, testimoniare la benedizione delle benedizioni (rispetto ai reprobi e ai maledetti). Facilmente, al di là delle ipocrisie, si prova e sente schifo per chi non rientra nelle regole e nei dettami sociali estetici.
La costrizione nel peso – forma e nella giovinezza, l’indicazione a perseguire ben precisi canoni estetici, la repulsione di fatto per la vecchiezza femminile, fino alla chirurgia plastica e a sottoporsi alla tortura di diete ed esercizi quotidiani e alimentari, e camicie di forza per il rassodamento e contro il Tempo (per la vita, il successo, le relazioni, la carriera, la realizzazione di se stessi, l’amicizia, l’amore) sono di una ferocia senza pari e più feroci e ricattatorii dei dettami religiosi e degli esercizi e delle veglie catecumenali: salvarsi costa sacrifici, ubbidienza, sottomissione, contrizione, digiuni, rinunce, mortificazioni, versamenti continui di denaro, quando poi salvezza non si otterrà. Essere in forma è una dimostrazione morale.

La non adesione al ‘68 in Pasolini è dovuta dal considerare la rivolta degli studenti una rivolta interna alla borghesia, e quella degli operai lotta per assimilarsi alla classe egemone, e divenire piccolo-borghesi, come si è avverato.
E il sogno della rivoluzione?
La vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi.
La rivoluzione avrebbero potuta farla solo gli operai. Erano gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, e sono stati loro a subire la conversione alla felicità borghese. Era con loro, con gli operai, che gli studenti avrebbero dovuto trovarsi, se volevano provare ad essere dei rivoluzionari. «I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università» è detto da Pasolini nella poesia Il PCI ai giovani!! [16 giugno 1968 sulla rivista «L’Espresso»]. Ma soprattutto, gli studenti avrebbero dovuto impiegare «l’unico strumento davvero pericoloso» per combattere contro i loro padri: il comunismo. Impadronirsi del PCI, il partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere”, e invece imborghesitosi, assuefattosi a ragionare di riforme, capace di provare simpatia per gli stupidi padri degli studenti. Si sarebbero dovute occupare tutte le sezioni del Pci, distruggere tutto ciò che di borghese vi era e vi veniva tollerato: in primo luogo la felicità borghese. Bisognava distruggere ogni idea di felicità borghese.

Diversivi, comfort e cosmesi hanno provveduto a rasserenare i corpi. Il corpo è rivoluzionario, come dice bene Pasolini, e sono i corpi che vanno colpiti ed educati. Il comfort si è rivelata una delle armi politiche più efficaci e micidiali. Il comfort e la cosmesi.

I diversivi, concetto di diversivi: per quanto riguarda ad esempio l’intera stagione operaista quelli che paiono per operai e lavoratori progressi e conquiste, in un’ottica rivoluzionaria e radicale, sono solo diversivi e distrazioni: per Pasolini la condizione operaia al Nord d’Italia è compromessa irrimediabilmente dall’accondiscendenza ai comfort.

Le conquiste operaie, le migliorie nella fabbrica , le 150 ore, le docce, la migliore salubrità dell’aria alla catena di montaggio, la mutua, le rivendicazioni salariali, le riforme ecc. appaiono e sono, rispetto alla lotta e al sogno della rivoluzione, diversivi, non differentemente che immaginare di mettere della carta da parati ad Auschwitz; così nell’ambito dei costumi e delle emancipazioni e magnifiche sorti e progressive delle donne, il divorzio e l’aborto servono a non rendere cosciente la donna del sistema oppressivo e di condanna di matrimonio e famiglia, a non concepire alternative o alterità, e garantiscono di vivere e di abitare le forme costrittive del patriarcato confortevolmente e senza la percezione carceraria. Di rendere comoda e invidiabile la detenzione. Come aveva avvertito il poeta Vittorio Sereni [3] si inizia con il mettere al posto della sirena, al posto dell’urlo della sirena, un walzer che segni il momento dell’entrata in fabbrica.

[3] Vittorio Sereni, “Una visita in fabbrica”, in Gli strumenti umani, Einaudi Torino, 1965.

Presto il padrone si trasformerà in un benefattore: chi crea posti di lavoro, cioè quello che un tempo era il padrone, è un benefattore che dà da mangiare e la possibilità di spendere a tante famiglie, e a cui essere grati. La santificazione del capitale, e la messa al bando del plusvalore sono ormai un’acquisizione dogmatica della teologia delle merci e del capitale.

C’è il dono o la grazia dell’imprenditore verso gli uomini che saranno assunti: l’assunzione (tutta la terminologia è sacra) in fabbrica come salvazione in virtù di un favore d’accettazione e di adozione concedente il beneficio di ogni risorsa economica necessaria per la salvezza di chi lo riceve. Creare lavoro e posti di lavoro possiede il crisma della genialità salvifica e rientra in una attività di apostolato.

La poetessa Amelia Rosselli (figlia di Carlo Rosselli, nipote di Nello Rosselli, entrambi trucidati dai fascisti) arriverà negli ultimi anni della sua esistenza (prima di gettarsi volontariamente dalla finestra del suo appartamento) a intuire e dire la stessa cosa: il lager è dappertutto, ma profuma ed è pulito, ed è dotato di acqua calda. Sarà attraverso i comfort che la fabbrica e gli operai, e le università e i giovani saranno resi docili per il regno della salvezza: gli operai e i sottoproletari come piccoli borghesi nel salotto buono con il divano coperto dal cellophane perché non si sporchi e rovini, e i giovani, nell’ora della rivoluzione, seduti al bar a prendere l’aperitivo. Per Pasolini alcun dubbio: la televisione non predica il verbo del consumo e dell’edonè: li rappresenta, li inscena, innesca l’imitazione. Si tratta di una scuola di ammaestramento. Osservare la televisione diviene osservanza: si osservano così modelli, regole, codici, comportamenti. Si impara a essere felici.
La musica del rivoluzionario è diventata anche la musica del venditore.
Il segno del disastro è la nostra felicità (l’aperitivo, e la cena, e le vacanze, e le prove del cuoco, e l’abbonamento in palestra con la prima settimana gratuita).
Tutto deve divenire, diviene conformismo (anche essere rivoluzionario), tutte forme di conformismo, e la trasformazione dei popoli in masse.
Scrive Pasolini:

[…] la massa, non il popolo, la massa
decisa a farsi corrompere
al mondo ora si affaccia,
e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video
si abbevera […]

E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. (“Il glicine” in La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961)

L’unico sogno delle classi subalterne è quello di assimilarsi alla classe egemone.

La cosmesi plasma una “civiltà” di consumatori, una civiltà in cui lo sporco, l’abbandonato, l’incolto, il maleodorante, l’imperfetto, il rotto, il liso, l’ineleganza, sono considerati difetti morali, brutti segni, segni di inciviltà e di cui vergognarsi, di usi retrogradi, dubbia moralità: l’essere fuori moda è moralmente sospetto: quando eleganza, profumeria, cultura, buon gusto sono prove evidenti di doti morali, l’essere fuori moda è moralmente sospetto. Il detersivo e i deodoranti e le docce puliscono dalla sozzura sociale, mandano via dialetti, tradizioni, superstizioni, religiosità, nostalgie o altrimenti dette “vecchiume”. Bisogna annusare e percepire con disgusto il maleodorante della propria umile origine e la persistenza del passato rurale. Devozioni, culti mortuali, pietà. L’intera categoria del Sud viene igienizzata e resa nuova e pulita. Il lindo e il pulito sono politica, profilassi borghese per un laicismo sano e vigoroso. Cancellare ogni residuo e traccia di barbarie (segni contadineschi, superstiziosi, sacralità e cerimonie di ogni tipo). La distruzione del sacro, dei rimasugli cultuali, comporta una campagna cosmetica, richiede pubblicità, e l’emancipazione è legata alle stanze da bagno, agli accessori del bagno (e appena possibile a palestre e spam). La superiorità cosmetica è e si caratterizza come distinzione culturale e morale. La sensibilità borghese è sempre un bene di lusso di cui compiacersi, e dunque razzista, anzi la più razzista delle virtù (al suo interno si assaporano e coltivano comprensione, tolleranza e superiorità morale, e si patisce per il mondo non senza un certo comfort e tra un consiglio d’amministrazione e l’altro e buoni guadagni).

I comfort disinnescano, smantellano gradualmente, acquietano scontentezza, ingiustizia sociale, sogni o velleità rivoluzionari, rabbia, desideri di lotta: la classe operaia viene addolcita con la pubblicità, con il rendere il benessere acquistabile, a portata di tasca, a colpi di utilitaria e posti auto, e cucina componibile, e frigorifero e televisione, e angolo bar. La gioia del consumo e la felicità coincidono. All’uscita dal lavoro e dagli uffici e dalle aule universitarie creare un’apoteosi di comfort e distrazione e soddisfazione a vivere: l’invenzione e il cerimoniale dell’aperitivo. L’aperitivo nel momento più rivoltoso della giornata (l’uscita da ufficio, aula, officina). Nel 1957 viene aperto in Italia il primo supermercato: Esselunga. Il governo americano invita Nelson Rockefeller a investire sull’operazione e così agevolare e lanciare supermercati in tutta la penisola italiana, come parte della politica anticomunista americana e con la convinzione che dare agli operai merci, brioche invece di pane, sia il miglior deterrente all’infezione comunista egualitaria e a smanie politiche combattive: saziarli, prenderli per la gola, e riempirli di pacchi.

Il comfort disinnesca, e rende gradualmente innocua e non pericolosa, la scontentezza, il disagio sociale, i sogni o velleità rivoluzionari, la rabbia, la lotta: la classe operaia viene smantellata a colpi di pubblicità, nel rendere la felicità acquistabile, a colpi di utilitaria e posti auto, e cucina componibile, e frigorifero e televisione, e angolo bar. Diversivi e comfort. Oltre i comfort, la cosmesi.
È necessario provare ribrezzo e repulsione morale per la sporcizia. Si tratta della valutazione di un degrado. Il culto della pulizia si inserisce all’interno dei più giustificati dispositivi di discriminazione. Permette di discernere e ripartire socialmente la popolazione e di iniziare a fare piazza pulita e commiserazione di falliti, emarginati, sottoproletari, nomadi, emigrati, reprobi, anarchici e libertari. Chi non si adegua, chi non si conforma è riconoscibile a vista e a naso (facilissimo individuare persone e gruppi nauseabondi). La società moderna ha eretto un sistema, che costa e indebita per la vita e la salvezza, nel quale ognuno deve integrarsi. Non ci sono alternative. Il culto della pulizia, e la negazione dell’usura del tempo, e dunque il culto del nuovo, preparano le anime alla conversione e a divenire acquirenti per salvarsi. Lo splendore e il profumo sono distintivi di riconoscimento morale.

Famiglia, scuola, posto di lavoro sono le strutture circondariali che presiedono all’ammaestramento per assuefare alla accondiscendenza e all’acquiescenza. La fabbrica è un campo di concentramento. Ciò che si compie è addomesticamento. Ad ogni generazione si assiste da parte del potere, di ogni potere e istituzione, alla restaurazione dell’ufficialità e dell’ipocrisia.

«La verità che non si riesce a dire […] è questa:» – scrive senza più appello Pasolini- «ognuno di noi è fisicamente la figura di un acquirente […]. Il mondo degli uomini come noi li conosciamo nella nostra vita modellata dalla maggioranza, è un mondo di acquirenti. Tutto ciò che ci serve per manifestarci è acquistato. […] Le leggi che ci governano hanno preso forma in un altro mondo cui non appartiene nessuno. Perché siamo sempre noi che, se vogliamo, diventiamo prima sicari e catecumeni, poi maestri della produzione di quelle merci di cui siamo acquirenti. Facendo questo sperimentiamo che non c’è alcuna soluzione di continuità fra suddito e padrone, tra lavoratore e capitalista.» [4]

[4] Pier Paolo Pasolini, Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975, Appunti e frammenti per il IV canto (paragrafo 4).

In copertina: Ugo Tognazzi nel film Porcile, di Pier Paolo Pasolini, pubblicato su «Novella2000», il 13 febbraio 1969

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