Dall’altro lato della vita: raccontare storie

Il 1° ottobre del 1899 il Blackwood’s Magazine (la rivista si chiamava così perché diretta dal signor William Blackwood) inizia la pubblicazione a puntate del capolavoro di Joseph Conrad, Lord Jim. L’anteprima su rivista si concluse nel novembre del 1900 e di lì a poco il romanzo uscì in volume. “L’opera”, fanno notare subito alcuni critici, “partita come racconto breve, era poi sfuggita al controllo dello scrittore”. Secondo questi critici, la struttura narrativa di Lord Jim, concepita per essere un racconto, aveva il limite di non reggere il peso di una narrazione lunga e complessa.

Lord Jim è un romanzo molto articolato dal punto di vista narrativo. Inizialmente la storia è narrata in terza persona, poi in prima persona da Marlow. Inoltre, nel racconto di Marlow si inseriscono a loro volta le storie dei personaggi secondari, i quali raccontano a Marlow le loro vicende in relazione a quelle di Jim. Questa tecnica conferisce alla vicenda una molteplicità di punti di vista. Riferendosi alla seconda parte i “critici” notarono quanto fosse inverosimile per un uomo parlare per così tanto tempo, senza interrompersi, mentre altri lo stavano a sentire. Non era, dicevano, molto credibile.

Conrad risponde sedici anni dopo, nel giugno del 1917. In qualche modo dobbiamo ringraziare i “critici” perché nella sua risposta Conrad, affronta in modo originale il discorso sulla scrittura. “Si sa di uomini che, tanto ai tropici come nelle zone temperate, sono rimasti alzati per una metà della notte a «raccontar storie». Questa, comunque, non è che un’unica storia, sia pure con interruzioni che concedono un po’ di respiro; e riguardo alla capacità di resistenza degli ascoltatori, occorre accettare il postulato che la storia fosse interessante. È il presupposto necessario. Se non avessi ritenuto che fosse interessante non avrei mai potuto cominciare a scriverla”.

Quindi – secondo Conrad – il presupposto per “raccontare” è che la storia sia interessante.

Proseguendo nella risposta ammette che: “Dapprima avevo pensato a un racconto breve, concernente soltanto l’episodio della nave dei pellegrini (…) poi mi accorsi che quell’episodio poteva essere un buon punto di partenza per un racconto libero e divagante (..). Le poche pagine che avevo scritto non furono senza peso nella scelta del soggetto. Ma tutto fu deliberatamente riscritto. Nel mettermi a tavolino sapevo che sarebbe stato un libro lungo, pur non prevedendo che si sarebbe esteso fino a tredici numeri del Blackwood’s Magazine”.

Conclude Conrad: “In tutta tranquillità posso assicurare ai lettori che mio Jim non è frutto di un pensare freddo o perverso. Non è neanche una figura uscita dalle foschie del Settentrione. Una mattina piena di sole, nei banali paraggi di una rada orientale, io ho visto passare la sua forma umana – attraente – significativa – screditata – perfettamente silenziosa. Così come doveva essere. È spettato a me, con tutta la comprensione di cui ero capace, cercare parole adatte al suo significato. Era «uno di noi».”

Qui c’è un altro elemento importante. Riferendosi a Jim, Conrad ci dice di averlo visto passare una mattina nella sua forma umana, e aggiunge: era «uno di noi». Il riconoscerlo tale, ovvero come «uno di noi», conferma il suo essere interessante. Non solo. Quando l’idea del personaggio, già maturata nell’autore, si presenta in una forma umana, “con tutta la comprensione” possibile Conrad cerca le “parole adatte” a raccontarla.

In quel riconoscere “umano” il protagonista di una narrazione, c’è l’unico rapporto possibile di uno scrittore con la verità.

Lo svizzero Peter Bichsel, in un libro del 1982, II lettore, il narrare, pubblicato in Italia nel 1985 da Aelia Laelia, piccola casa editrice di Reggio Emilia, scrive: “La domanda che si fa al narratore di storie, se cioè la sua storia sia vera o no, si basa su due errori. Il primo errore consiste nel credere che esistano storie che non contengono verità. In linea di principio, invece, non si inventa nulla, perché la fantasia umana è limitata da tutto quanto esiste. (…) Il secondo errore sta nel pensare che la lingua possa rendere ciò che veramente esiste; infatti essa può solo cercare di descrivere la realtà.”
Ricordate quello che Rene Magritte ha scritto sotto il disegno realistico di una pipa? “Questa non è una pipa”. Ebbene uno scrittore dovrebbe utilizzare questa dicitura sotto ogni parola che scrive. Se scrive, ad esempio, Ia parola “albero” non sta dicendo cos’è un albero, ma lo sta semplicemente evocando. Anche se dovesse aggiungere che si tratta di un albero alto e spoglio non svelerebbe comunque la verità di quell’albero, però riuscirebbe a farlo immaginare meglio.

Se scrivo un nome proprio di persona, ad esempio Giorgio Messori, quelli di voi che hanno letto i suoi testi di narrativa, oppure lo hanno conosciuto, riusciranno immediatamente a figurarselo, ma per coloro che di lui non sanno nulla il nome proprio resterà un nome come tanti. Se – parafrasando Conrad – aggiungessi che Giorgio Messori era «uno di noi» riuscirei, forse, a stimolare un poco la vostra immaginazione, ma non aggiungerei nulla di significativo alla verità della sua esistenza. Per svelare qualcosa di Giorgio Messori, per farvi capire qualcosa in più di lui dovrei cercare le “parole adatte” a raccontarvi di lui, oppure – e questo è quello che farò – proponendovi alcune parole scritte da lui stesso.
“Qualche giorno fa, andando a un incontro a Parma con Beppe e Igor (…), mi sono trovato di fronte, in uno scompartimento del treno, una ragazza piuttosto bella. Sedendomi l’ho guardata, ma contemporaneamente mi sono accorto che la ragazza aveva notato che io l’avevo osservata, e così si è allacciata un golfino che portava sopra una maglietta bianca, di quelle che s’indossano direttamente a contatto della pelle. Il gesto era tipico di atmosfere che si creano nello scompartimento di un treno. Mi è anche venuto in mente che esisteva una parola, che ero convinto di conoscere senza riuscire a trovarla, che si riferiva esattamente a quel tipo di maglietta bianca. Per tutto il viaggio ho cercato questa parola. Avrei voluto scrivere un racconto partendo da quel gesto, ma mi sentivo bloccato. Poi ho pensato che potevo scrivere (probabilmente questa è una delle ragioni del mio andare verso la prosa) anche se non trovavo, o mancava una parola.”
Ora certamente sapete qualcosa in più di Giorgio Messori ed io sono contento di avervi aiutato a capire che è stato uno scrittore e, per un certo periodo, un caro amico.
La potenza della scrittura, sta nella capacità di evocare una persona, una situazione, o un semplice oggetto, anche quando ci manca una parola, perché la scrittura altro non è che una descrizione possibile del mondo, come dice Peter Bichsel “la lingua può solo cercare di descrivere la realtà.”

Continuando a citare Peter Bichsel (Giorgio Messori è stato tra l’altro il suo traduttore in Italia) possiamo cercare di avanzare un poco verso la comprensione del “raccontare”.
“Raccontare storie significa occuparsi del tempo, ed esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine, e che la vita dei nostri amici ne ha pure uno. L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada. Religione e filosofia dovrebbero offrircene gli strumenti. Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata. Il raccontare storie ha qualcosa a che fare col fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie. Senza alcuna comprensione del tempo non ci sarebbe nessuna storia. Chi non ha nessuna inclinazione alla tristezza è perduto per la letteratura; potrà anche essere di qualche utilità a chi scrive, me non certo al lettore. Il mondo della letteratura è mondo di sentimenti.”

Chi ha visto La grande bellezza di Paolo Sorrentino avrà notato che il film inizia con la citazione dell’incipit di un romanzo di Celine, Viaggio al termine della notte, pubblicato nel 1932.
La grande bellezza è un film popolato da protagonisti disorientati dallo svanire di certezze ideologiche, dalla crudeltà di relazioni sempre più avvolte nell’indifferenza. È uno sguardo impietoso su esistenze immobili, incapaci di percepire il tempo e la Storia. La grande bellezza è anche un film sulla scrittura, non solo perché Jep Gambardella, il protagonista, è uno scrittore. Confessa Jep: «Mi chiedono perché non ho scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non c’è riuscito: dovrei riuscirci io?» Se non si accetta la tristezza come condizione del nostro esserci nel mondo, scrivere è inutile.

Jep Gambardella - fabule magazine Small Jep Gambardella nel film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino

Ecco l’incipit di Viaggio al termine della notte.
“Viaggiare è utile, fa lavorare la fantasia. Tutto resto e soltanto delusione e fatica. Questo nostro viaggio è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dada vita alla morte. Uomini, bestie, citta e cose, tutto è inventato. È un romanzo, dunque null’altro che una storia fittizia. E poi, tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altro lato della vita.”
Abbiamo bisogno di una “chiave” per comprendere il significato dell’incipit. Viaggio al termine della notte è scritto in prima persona. C’è un narratore che, come l’autore, si chiama Ferdinand, attorno al quale si muovono svariati personaggi.
“Avevo solo vent’anni in quel momento. M’ero sentito così inutile tra tutte quelle pallottole e la luce di quel sole.”
Siamo nelle trincee della prima guerra mondiale. Da una parte i francesi e daII’altra i tedeschi.
Viene in mente un altro incipit meraviglioso: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.” L’autore è Paul Nizan e il romanzo si chiama Aden Arabie, ed è uscito nel 1931, un anno prima di Viaggio al termine della notte.
“Si trattava di vivere un’ora di più per tutti noi, e un’ora sola in un mondo dove tutto è ridotto al delitto è già un fenomeno.”
“Dove ci trovavamo (…) non poteva esistere né amicizia, né fiducia. Ognuno lasciava soltanto intendere ciò che credeva favorevole alla sua pellaccia.”
Inizia ora quella riflessione sul tempo che – come ci ha fatto notare Peter Bichsel – è ciò che spinge a raccontare storie.
“Vi ricordate di un solo nome (…) dei soldati uccisi durante la guerra dei Cento Anni? Avete mai cercato di conoscere uno solo di quei nomi. No eh? Non avete mai cercato? Essi vi anonimi, indifferenti e ignoti come l’ultimo atomo di questo posacarte dinanzi a noi, come… Vedete dunque, sono proprio morti per nulla.”
Poco prima c’è un altro brano, intimamente collegato a questa.
“Tutto ciò che è interessate accade nell’ombra, certamente. Non si sa nulla della vera storia degli uomini.”
Ecco la chiave per interpretare il senso dell’incipit del romanzo di Celine.

Se la vera storia degli uomini non è percepibile perché resta nascosta nell’animo di ciascuno di noi, allora solo l’immaginazione può “far emergere” quel che accade nell’ombra. E nel farlo siamo dall’altra parte della vita.
Celine non pensa ad un banale processo nel quale l’immaginazione sostituisce arbitrariamente e – per così dire – “inventa quello che manca”. La scrittura è una attività precisa, complessa e sofisticata, capace di creare una narrazione, ma nel farlo segue un percorso, o meglio ne interpreta le conseguenze. La scrittura non è cronaca, non può esserlo perché il suo percorso si srotola “dall’altro lato della vita.” Piuttosto la scrittura sfiora incessantemente ciò “che accade nell’ombra”, ed in questo continuo portarsi verso “ciò di cui non si sa nulla”, lascia intravedere la “vera storia degli uomini”.

In cima alla pagina: ritratto dello scrittore Céline nella sua casa di Meudon, in Francia, nel 1951

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