Mi chiamano Eni.
Sì, come l’azienda energetica. Ma è solo un nomignolo. Il mio vero nome è più lungo, se si vuole ridicolo: Mut Em Enet, “colei che appartiene alla dea Mut”. Mio padre, che da bravo massone era appassionato di esoterismo, lo scelse da un libro per iniziati. Mia madre non obiettò.
Sono nata bella, con una grazia naturale. Collo lungo, fianchi larghi, un fondoschiena da scultura politeistica, mani da pianista, piedi affusolati. Mi sono laureata in giurisprudenza a ventiquattro anni. A venticinque ho cominciato a convivere. A ventisette mi sono sposata.
Mio marito si chiama Fabrizio Potini, ma i blog lo chiamano PotiFar. È un soprannome idiota, ma funziona. Amministratore delegato di una finanziaria italo egiziana, due dottorati, zero figli. È sterile. Non per natura, ma per design. Si è consacrato alla carriera su istigazione dei genitori arrivisti. Suoceri ottusi, gelidi come i ghiaccioli destinati a squagliarsi al sole. A loro detta a lui spettava solo accumulare un potere paragonabile a una densità oscura.
Il matrimonio fu celebrato a Santa Maria Novella. Avevo appena finito un master in diritto internazionale. Gli promisi fedeltà, lui mi promise una villa a Corfù e una libertà inerte.
Ma, dopo appena due anni, apparve un ragazzo straniero: Yosef.
Ventiquattr’anni, veniva da Haifa, ma la sua famiglia era d’origini romene.
Sfoggiava occhi neri come il catrame, meditabondi ma penetranti. Naso minuscolo, non adunco. Labbra carnose. Corpo tonico. Gambe dritte.
Parlava poco. Non abbandonava mai la sua serietà mite.
Indossava scarpe nere, camicie bianche, giacche nere e kippot variopinte.
Solo una volta, pochi giorni dopo la strage, gli ho visto addosso una maglietta biancoceleste con la scritta אורים ותומים.
Yosef era stato assunto come tirocinante nella fondazione culturale intestata a mio suocero. Abitava in un monolocale sopra alla palestra frequentata anche da me. E si allenava con dedizione. Senza togliersi la kippah, ma in tuta aderente, davanti alla vetrata. Lo vedevo ogni volta che facevo pilates o, a fine allenamento, quando mettevo in loop gli ASMR su YouTube.
Iniziò con un messaggio:
«Gentile signora, ho trovato dei documenti da firmare per il progetto NFT dei mosaici siciliani.»
Mi innamorai come una ragazzina indifesa.
Lo guardavo. Lo fotografavo. Gli inviavo vocali non compromettenti. Lui rispondeva con rispetto, con una formalità che si degradava in assenza inquietante. Nessun desiderio. Solo educazione. Solo distanza. Uno straziante silenzio digitale.
Lo toccai sul fianco, mentre gli passavo accanto in palestra. Per errore. O per fame.
Si scostò. Fece un passo indietro. Disse soltanto: «Mi scusi.»
Io non replicai. Ma non mi sentii disinnescata.
Però capii. Capii tutto. Yosef non era gay. Non era impegnato. Era puro ed ebreo. E la purezza e il giudaismo oggi sono un insulto.
Cominciai a soffrire in modo elegante. Dormivo meno. Indossavo solo abiti castigati. Postavo citazioni latine, considerazioni moralistiche per lo più convenzionali, e foto in controluce. Ero caduta nel più banale oversharing irreprensibile. Forse perché un fuoco insolito ustionava il senso di colpa.
Una notte, ero sola, piansi con la musica di Arvo Pärt in sottofondo. Poi inviai un WhatsApp a mio marito che era in Finlandia per affari: “Mi manca ciò che non ho mai avuto.”
Fabrizio non comprese. Rispose con una faccina sorridente.
Al suo ritorno, esasperata, gli portai un brandello della camicia bianca di Yosef da me strappata quando gli saltai addosso.
Fabrizio mi chiese turbato: «Cosa significa questo straccio?»
Io mormorai: «È una lunga storia.» Sospirai. E aggiunsi, dopo una pausa studiata: «Anzi, è una storia fin troppo breve: Yosef non è un santo.»
Non servì altro.
L’allontanamento venne da sé. Senza testimoni. Nessuna denuncia, solo un commento lasciato cadere come una goccia d’olio rancido sulla pelle: «Meglio non fidarsi di voi ebrei, presuntuosi circoncisi cerebrali.»
A quel che so adesso Yosef è tornato in Israele e vive a Mea Sharim. È diventato chassidico come i suoi avi. Barba incolta, peot, tzitzit, cappello di pelliccia, casa di preghiera, forse una moglie dai capelli rasati, forse qualche figlio. Non usa più i social. Probabilmente possiede solo un cellulare gsm.
Per l’ultimo compleanno Fabrizio mi ha regalato un attico biometrico a Figline.
Per i momenti di riflessione solitaria, ha detto.
Mi rifugio spesso là, anche quando lui è a Firenze.
Ma non mi sento sola.
Mi tengono compagnia tre specchi high-tech, un frigorifero digitale che mi consiglia superfood, le pareti spoglie e un avatar vocale che mi legge Thomas Mann.
Ogni tanto passo in rassegna con loro le vite non vissute.
E, al solito, mi sfugge la domanda scontata: «Se tornassi indietro, rifarei tutto?»
La risposta è altrettanto scontata: «Sì. Ma meglio».