Dodici lettere inedite di Anna Maria Ortese a Dario Bellezza

Esiste un nucleo di dodici lettere inedite, proveniente dall’archivio privato di Dario Bellezza e restato fuori, difficile dire per quali ragioni o casualità, dalla consegna nelle mani e per la cura di Adelia Battista da parte di Dario Bellezza stesso di quelle che si potevano credere tutte le lettere ricevute dalla Ortese e poi pubblicate dalle edizioni Archinto (Bellezza, addio. Lettere di Anna Maria Ortese a Dario Bellezza 1972-1992, a cura di Adelia Battista, Archinto editore, Milano 2011). L’archivio di Dario Bellezza, messo all’incanto dalla casa d’aste Bloomsbury il 27 ottobre 2009 e andato invenduto, è stato poi acquistato, con trattativa privata fuori asta, da chi scrive questa nota. Dodici lettere, un decennio, dal 1978 al 1988, tutte spedite da Rapallo e tutte indirizzate a Dario Bellezza tranne una, quella del 14.03.1988, per Anna Mirabile, inviata per tramite a Dario Bellezza non ritrovandosi più la Ortese l’indirizzo della destinataria, e a questo punto mai giunta a destinazione: la lettera è un ringraziamento per aver ricevuto il libro della Mirabile, Nuvole in soffitta – Firenze libri 1987 – con introduzione di Dario Bellezza, e copia di una recensione che la Mirabile ha scritto sulla scrittura della Ortese, per il resto lettera laconica e dalla grafia dolente, fatta di silenzi e cancellature, per dire di non voler dire o per confessarle che In sogno e in veglia non va considerato troppo sul serio, è un libro incompleto, e “bolle di sapone” tutta la propria produzione letteraria (“soltanto bolle di sapone. Tutta la vita, bolle di sapone.” ribadirà in altra missiva, pur aggiungendo, tra parentesi, che però, quando scriveva, era bello).
L’attenzione e ammirazione di Dario Bellezza per la Ortese sono riconducibili comunque ad una storia iniziata già prima dell’incontro effettivo avvenuto a Roma nel salotto di Graziana Pentich agli inizi degli anni settanta, e portano di certo il blasone del gruppo Moravia e la persistenza, al di là di pettegolezzi e dicerie, di qualche arredo di culto per i libri della scrittrice nella consorteria dei “Nuovi argomenti”, e qui basti citare la lettera (ancora inedita) della Ortese a Giovanni Macchia (datata Milano 5 giugno 1967) dove lo ringrazia per essere venuta a sapere “con certezza” da qualche giorno che lui ed Alberto Moravia presenteranno, appoggeranno, Poveri e semplici allo Strega, e non può che dirsi grata e commossa perché non sarà agevole presentarlo, sgradito come è stato, il libro, all’intera critica delle terze pagine, e scusarsi di dover imporre agli amici incarichi, come questa presenza ad un premio, così malinconici; o ancor più è sufficiente ricordare l’abbagliante scheggia contenuta in una lettera del 30 marzo 1983 di Grazia Livi alla Ortese (anche questa ancora inedita e conservata nel fondo dell’archivio napoletano) in cui la Livi le ricorda quanto Pasolini avesse amato Il porto di Toledo senza aver avuto il tempo per una recensione (e cioè l’opera poi più trascurata dalla critica e umiliata editorialmente, sconfitta e ferita insanabile, a cui la Ortese terrà più che ad ogni altra sua produzione prediletta). Poco, in questa ancora scarsa cronaca, aggiungono le pubblicazioni su “Nuovi Argomenti” se non come gemmazioni di una fioritura da tempo in atto, che siano le cinque poesie pubblicate nel 1974 e che le attirano l’ammirazione incondizionata di Amelia Rosselli o la straordinaria intervista di Dario Bellezza (“Dieci domande a Anna Maria Ortese”) uscita nel numero 51-52 del 1976.
La scrittura di lettere in Ortese è una grande scena d’ombra, come nella migliore tradizione del teatro d’opera. Avviene alle prime luci dell’alba o meglio al fondo della notte (ci si riferisce, ovviamente, alla pratica delle lettere private, per amici e conoscenti, al di fuori dei “consigli di amministrazione” della letteratura).
La scena è descritta nella lettera del 21.11.82 insieme alla propria condizione di amanuense, agli strumenti scrittorii e alle modalità di tale pratica. Come detto, avviene alle prime luci dell’alba, o meglio proprio alla fine della notte, il più delle volte su piccoli foglietti, come “appunti di massaia”, posati sulle ginocchia, in una stanza fredda, con la stufa spenta, e i ragni che filano ragnatele e calano dalle pareti, e odore di mare, e il rollìo della notte ligure, come in sottobordo, o stiva di nave in secca, o alla deriva, secondo i modelli marinareschi e pirateschi degli amatissimi Melville e Stevenson, ma anche con tutti i brividi di alcune imprescindibili scene russe: tutto lo splendore lunare di Tatiana, la sua pazzia epistolare, è qui leggibile in controluce, con spie linguistiche, quali quel “che dirvi!?”, così come l’ora mattutina, e la percezione dell’essere spersi e abbandonati nella campagna innevata dei giorni e che lo scrivere lettere sia comunque e sempre spedire messaggi all’amata scrittura stessa, quale destino d’amore e di felicità (al termine della lettera del 22.1.83 chiede accorata a Dario Bellezza se conosce “per davvero” e per bene l’Oneghin). E quando non è nave nella tempesta o isba, allora è casa nella brughiera scossa da un vento terribile (gli amori letterari accorrono sempre ad inscenare – in questo caso Cime tempestose – la veglia dello scrivere lettere e il prestigio dello stare a pensare). Tutti i foglietti sono scritti a mano, e riempiti in ogni loro parte; il ricorso alla macchina da scrivere e a fogli più ampi è legato a momenti di non arginabile emozione e al bisogno di disciplinare la pena e la deflagrazione di certi pensieri evitando i disordini e le macerie della disgrafia e dei soprassalti o batticuori della mano (quanto più le lettere sono tempestate dai pensieri e dalla percezione dell’ingiustizia di vivere, tanto più sono sorrette dalla affidabilità del mezzo). Alle buste sono affidati invece certi sogni o segni fantastici: ricami, sottolineature, nell’indirizzo, guarnizioni, come ad esempio certo calligrafismo nel tracciare il nome di Dario Bellezza o la decorazione del capolettera o bordature intorno al nome della città di Roma (nella lettera del 9 febbraio 1984 parla della nostalgia che ha in continuazione per questa città e del dolore incontenibile che la prende, ogni volta che ci pensa, nel non poter camminare per le sue strade di luce: e, come merlettaia, ne ricama e incantesima il nome nella busta).
Una volta che tutte le lettere della Ortese saranno accolte ed edite e presenti non sarà difficile rendersi conto che costituiscono una sorta di straordinario Zibaldone di pensieri, un laboratorio formidabile di illuminazioni, considerazioni, idee, con la scusa delle “lagnanze” in realtà viene messo in atto, prodotto, un modello di sollecitazione e un corpo espressivo straordinario in cui confluiscono e scorrono tutti i detriti della letteratura e delle letture a formare argini e un delta infinito per la scrittura.
Una delle più gravi e solenni è la lettera dattiloscritta del 9.9.78 con il tema della fatica di vivere, in particolare il semplice accumulo dei giorni come una lenta e inesorabile nevicata, e il peso delle occupazioni, degli impicci, delle scadenze, la realtà reale, e misera, dei giorni (le bollette da pagare – sempre troppo care quando arrivano – il sostentamento, l’affitto di casa, le stanze, la spesa, le medicine, la malattia della sorella, i rumori della casa). Uno dei temi più profetici ed illuminanti della Ortese è quello del dolore economico, e il continuo legame tra grazia e denaro (“salvi” sono detti tutti coloro che non hanno problemi economici), intorno a questa genealogia si sviluppa l’idea dell’agonia quotidiana, di una sofferenza dell’ordine delle cose di tutti i giorni creata e voluta dal mondo (in Ortese il denaro è strettamente legato alla potenza salvifica di un talismano stregato intorno a cui ruotano la giustizia e l’ingiustizia del mondo e soprattutto l’esperienza dell’angoscia e della morte, senza retorica, consolazione e orpelli- consustanziale al denaro è la garanzia di una protezione, di una indispensabile salvaguardia dagli affanni e dai fastidi di cui non dovrebbe essere privato nessun essere vivente).
Il “piccolo denaro” serve ad arginare lo stillicidio della vita, a garantire un breve margine di levità nell’orizzonte dei giorni e della pazienza infinita richiesta agli umani non corazzati (pazienza è uno dei termini più ricorrenti in queste lettere): per i continui dissesti geologi che la vita produce rendendo tutto il nostro territorio interiore a rischio continuo di inondazioni, smottamenti, frane, scoramenti, cedimenti strutturali, il piccolo denaro è necessario, così come alla manutenzione, per l’ordinaria amministrazione, al soccorso, al mantenimento della dignità e ad evitare di essere travolti e tracimati via. Serve per salvarsi dalla quotidianità dei giorni, da inerzia e tristezza. Ovviamente non serve per alleviare il dispiacere continuo per tutto ciò che la vita non offre. Della grande pena per tutto ciò che la vita non offre si occupa egregiamente la letteratura (per la Ortese soprattutto lo ha fatto Giacomo Leopardi, con validità fino alla fine dei tempi).
L’amicizia con Dario Bellezza ha il fondamento stupefacente del denaro, per questo può dirsi amicizia, è fondata sulla sollecitudine economica e sull’aiuto concreto prestatole dall’amico (impresa sovrumana), tutto il resto essendo chiacchera e vanità. Il galateo, la civiltà dei gesti economici, della capacità di saper rendere così trasfigurata e lieve la pesantezza dei soldi, ripristinando una libertà e un potere salvifico, è misura e manifestazione di miracolosa umanità. In Ortese ritorna in continuazione il ricordo, ineffabile exemplum da agiografia e fioritura di santi, (l’episodio è riportato per esteso e come ex voto in una lettera del 26.6. 81 a Patrick Mégevand – Pensare l’alba al fondo di una notte d’inverno – Lettere di Anna Maria Ortese a Patrick Mégevand 1978-1997, Philobiblon Edizioni, Ventimiglia 2017) della volta che si recò da Dino Buzzati non sapendo come fare per certi pagamenti, e gli chiese di prestarle, gliele avrebbe restituite al più presto, diecimila lire. E lui ne aveva cacciate subito, – “contento” – dalle tasche, venti (tutto subito miracoloso), e gliel’aveva date come niente fosse o come fosse l’ultimo dei problemi. E dopo molto tempo, quando era tornata da lui per scusarsi di non riuscire ancora a restituirgli quel denaro, aveva risposto: “Quale denaro?” non ricordava di averglielo dato. “Non mi ricordo assolutamente di questo denaro che Lei dice. Non le ho dato mai nulla” aveva chiuso.
L’amicizia di Dario Bellezza è garantita a questo punto per sempre, e testimoniata e resa immune da tempo e scadenze per aver egli compiuto un bene concreto e fondato sulla scabrosità dell’aiuto economico, e averlo compiuto con lo splendore con cui alcune persone elargiscono e non si curano, immuni, come per virtù angelica, dai sortilegi del denaro. In questa maniera, e solo in questa maniera, si paga per sempre il debito con il mondo. Nella lettera del 9.2.84 gli ricorda otto anni di aiuti concreti, l’aver pagato bollette salatissime, quelle del telefono e della luce in scadenza (e il telefono, che non si può pagare e che fa diradare le chiamate e aprire voragini di silenzio e solitudine, è male metafisico e rientra a pieno nelle difformità del vivere e nel grottesco delle pene e degli affanni). Il rapporto di Dario Bellezza con il denaro è pieno di grazia (appartiene, come Buzzati, a coloro che possiedono la grazia, che si misura solo in chiave economica). Questo perché, come spiega nella stessa lettera, ogni azione economica misura e smaschera l’irrilevanza e solidità delle nostre relazioni d’amicizia e di uomini, e, come in un racconto da Leggenda aurea, è azione che non può essere soggetta a impostura e finzione: il denaro, come spiega Dostoevskij, rivela l’anima, anzi l’anima su questa terra può solo vedersi e toccarsi sotto la lente dell’economia.
La prova a cui è stato sottoposto Dario Bellezza è stata difficilissima, Ortese riconosce “che era difficile” e che nessun altro dicentesi amico lo ha fatto. Ha significato mandare soldi per bollette arretrate, inviare assegni, spedire contanti, far finta di credere alle promesse di risarcimento, alle formule irrispettose a restituire tutto a fine mese, e inoltre sorbirsi lamentazioni e tutta l’insopportabilità di chi chiede aiuto andando a mettere mano al nostro portafoglio rendendoci all’istante irritante la nostra stessa sensibilità d’animo. Come Buzzati, Dario Bellezza ha mostrato una virtù speciale, un dono (all’interno dell’inferno solo quelli economici sono doni e grazie celesti). Dall’altra la Ortese colloca la propria situazione misera in una sfera di agitazione legata al rifiuto costituzionale di peccare e di avere vizi, e cioè capacità e volontà di procurarsi mezzi, doti e accortezze e prudenze e calcoli e astuzia e abilità ecc. che le fanno ribrezzo e la cui mancanza le dimostrano, attraverso la sofferenza, una sua fedeltà: la parabola evangelica dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo che non devono occuparsi del futuro e di cosa mangeranno e di come vestiranno diviene testarda parabola civile e appello sociale con cui si devono pesare le mostruosità, le incongruenze, i crimini della nostra inciviltà. Bisognerebbe vivere nella realtà sociale del “piccolo denaro”, e cioè con la garanzia di vivere dignitosamente contro l’inerzia dei giorni facendo dell’ammonimento cristico monito politico: di denaro ce n’è quanto basta, tutto il resto è dismisura, orgoglio e rapina (il viaggio in Russia è stato in questo senso illuminante, per l’ intuizione preziosa che le ha procurato delle classi sociali come categorie non economiche ma morali, e dunque il ribrezzo per l’ emancipazione sociale e il salire di grado economico nella scala sociale, che comporterebbe acquisizione di colpe e viziosità automatiche e ripugnanti e il passaggio irreversibile tra la schiera dei pagani), la emarginazione economica, l’orrore per l’imborghesimento come atti politici investono anche i consigli di amministrazione della letteratura, l’estraneità al ruolo e impiego e di entrare a far parte dei quadri delle lettere, e cioè niente potere, divise, titoli, poltrone di alcun genere e attività culturali ufficiali e che conferiscano prestigio. Non martirio, ma slancio rivoluzionario e militanza, come attestano diversi passaggi di queste lettere nel desiderio di entrare nell’agone del mondo e denunciare il perpetrarsi del male come la tentazione della dismisura (”il desiderio di intervenire sui fatti” lo chiama nella lettera del 22.10.1982).
Le lagnanze della Ortese su soldi e povertà sono uno strumento essenziale di veglia, di misurazione e conferma dell’ appartenenza alla schiera dei tanti, innumerevoli, non salvi con cui bisogna stare; la vocazione alla precarietà salariale così come la dimestichezza e frequentazione delle soglie della povertà (le esperienze di “autentica miseria” cioè, come le chiama) rientrano negli impratichimenti spirituali, definiscono una preziosa blasonia, anzi la scelta di uno stato sociale è la scelta di un ordine religioso (da qui l’accusa di apostasia per l’emancipazione o tentazione borghese dei tanti, troppi, amici scrittori con la conseguente perdita di ogni legame autentico con la sofferenza e la realtà umane, con ciò che il mondo, per dirla con Kafka, pretende dalla povera gente). Il denaro, come le ha insegnato Simone Weil, offusca e confonde memoria, oblio scende su ogni anima arricchitasi, si diviene in brevissimo tempo degli estranei per la felicità, e si va ad abitare nei piani alti.
Nella Ortese gli aneddoti, i ricordi, i racconti di aiuti e soccorsi e gesti economici assurgono sempre allo statuto di splendenti frammenti agiografici, portano segni e bagliori da trattato di angelologia: così il rosso rubino di luce cherubica della camicia di Dino Buzzati, o i vaglia postali orlati di azzurro di Dario Bellezza, o ancora il sorriso di Buzzati (“contento” dice il racconto) nel tirare fuori i soldi (quell’estrarre i soldini dalla tasca con sollecitudine come solo pochissimi benedetti sanno fare). Nel caso poi di Dario Bellezza si aggiunge anche la condizione di un poeta spesso ai limiti della povertà, disordinato, senza precauzioni e salvaguardie economiche, toccato anzi sovente dalla grazia catastrofica e dall’ebbrezza dello scialacquare, tanto che spesso i due, Dario Bellezza e Anna Maria Ortese, si ritrovano in un piano di fantasticherie economiche, per un attimo, felici e leggeri.
Vorrei regalarti una casa nuova fiammante…” gli scrive in una lettera tutta vergata a mano (del 10.04.82) e dove tutta questa materia dolente e disperata mette le ali e si dirige nelle terre des enfants du Paradis con il motivo magico e fiabesco del “Padrone delle case” e della propria condizione funambolica da loggionisti e piccionai squattrinati nel teatro violento e ottuso del mondo. Ecco l’inizio della lettera:

Caro Dario, grazie di avermi telefonato. Avevi una voce nuova, ne sono rimasta sorpresa; anche per questo non ho sentito il solito Dario. Ti ricordi davvero della nostra vecchia amicizia? Se così non fosse, pazienza. Sei tra i pochi, però, se non l’unico scrittore dal quale mi è venuto un gran bene, e bene concreto, di fatti – di aiuti. Queste cose restano – non so dove – ma restano – anche se benefattore – e beneficiato possono dimenticarle. Vorrei regalarti una casa nuova fiammante – piena di aria, sole, allegra e tale da rendere tutto nuovo e bello. Ma non sono il Padrone delle case. Si trova chissà dove – e si annoia. Anche qui, pazienza. […]

Nella foto in alto: Anna Maria Ortese al Premio Viareggio 1953. Premio ottenuto per Il mare non bagna Napoli ex aequo con le Novelle dal Ducato in fiamme di Carlo Emilio Gadda. Nella foto con Gadda, Agenzia Dufoto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Unisciti alla nostra community letteraria!

Related Posts

Personaggi in cerca d’editore
Personaggi in cerca d’editore