La notte di San Lorenzo regalava il firmamento. Sdraiata sull’erba stopposa sbirciavo indisturbata il notturno di un cielo senza velature a cercare stelle cadenti, depositarie di desideri che puntualmente non si avveravano.
I luoghi riconducibili al sentire profondo restano connessi tutta la vita. Vuoi mettere, la fortuna di crescere nelle vicinanze del monte Pallano, in osco Palanud, tra boschi e avvallamenti confinanti dalla Majella al mare, in un territorio d’Abruzzo un tempo popolato da Sanniti e Frentani.
Nelle giornate d’autunno metteva i brividi percorrere in silenzio quelle terre sacre agli antichi. I sentieri appartati tra i boschi filtravano l’eco di racconti e di leggende tramandate dalla notte dei tempi. Passo dopo passo, ancora mi turbava il ricordo delle voci tremule e incerte degli anziani che raccontavano di streghe, di fonti sacre, del lago che appare e scompare. Intanto le trame dei pensieri si rincorrevano fino in cima al monte dove la nebbia confondeva il paesaggio nell’infinito smarrimento. Non molti anni prima la guerra era passata anche lì e aveva lasciato intorno la devastazione. In certi momenti sembrava di percepire ancora il calpestio dei passi insicuri di donne, vecchi e bambini.
“Fu alla svolta di un bosco, sboccando su una mulattiera sassosa, che incontrammo una gran carovana di gente che saliva. Era un bosco triste e squallido, macchiato di polverose carbonaie. E la gente procedeva in silenzio, come si usa al seguito dei funerali. Contadini, per lo più, famiglie intere, nonno, mamma, bambini e chi portava un sacco sulle spalle, chi un materasso, finanche i piccoli reggevano qualcosa, magari un paiolo appeso al braccio. Guidava la processione l’arciprete, seduto su un asino magro…”, lo scrive Alba De Céspedes. Era il 14 novembre del 1943 e si era imbattuta nella carovana di sfollati che dal paese vicino, Tornareccio, andavano a rifugiarsi sul monte Pallano. “Subito ci arrestammo, intuendo che qualche cosa era avvenuto, una grande disgrazia. Alcuni paesani alzarono appena gli occhi per guardarci, altri ci ignorarono addirittura. Ma un giovane zoppo, attratto dal nostro aspetto singolare, s’arrestò per chiederci di dove venissimo. Spiegammo che avevamo lasciato la città per sfuggire ai tedeschi, eravamo vissuti alla macchia, e adesso, traversate le linee, eravamo liberi, finalmente. Io aggiunsi: “È questa la strada per Tornareccio? Vorremmo dormire a Tornareccio, stasera”. Ma il giovane mi guardò con occhi gravi e disse: “Tornareccio non c’è più”. Poi riprese a camminare, invitandoci con un gesto a seguirlo.” Alba Carla Laurita de Céspedes y Bertin era nata a Roma, da madre italiana e padre cubano, un diplomatico, figlio di Carlos Manuel de Céspedes, rivoluzionario e leader dell’indipendenza di Cuba. Dopo l’armistizio dell’8 dicembre 1943, Alba fugge insieme al compagno Franco Bounous per paura di rappresaglie da parte dei tedeschi. “Entrammo anche noi nella processione, allora: il bosco si inerpicava in ripida salita, le donne procedevano a stento, ansimando talvolta si riposavano per un attimo, poi riprendevano caparbiamente a salire. Un vecchio cadde sul terreno scivoloso del bosco, non ce la faceva a rialzarsi, roteava gli occhi quasi non avesse il coraggio di continuare, preferisse morire lì. Allora sua moglie, una vecchia alta e ossuta: “Possà avè la scomunica Mussolini!” esclamò. Intanto la nostra guida aveva rialzato il vecchio e subito tutti ricominciarono a camminare.”
Era tempo di crepe profonde, di ombre e distruzione. Nell’Italia soffocata dal peso della dittatura nazi-fascista, iniziavano a vedersi spiragli di speranza.

I due fuggitivi da Roma raggiunsero il cuore dell’Abruzzo. Al riparo nelle case in pietra dei paesetti arroccati tra le montagne, avevano attraversato i boschi con il respiro corto e la paura di essere scoperti dai soldati tedeschi nei momenti di sonno dentro un pagliaio, oppure scalzi con i piedi affondati nell’acqua gelida dei ruscelli per togliersi polvere e sudore di dosso. Alba de Céspedes intanto scriveva, ovunque mentre camminava, mentre si scaldava davanti a un fuoco di fortuna, insieme a donne, bambini e anziani, i mariti e i giovani si erano dati alla macchia con i partigiani. I suoi racconti sono a presa diretta, dettati dall’urgenza di fissare sulla carta ciò che vedeva e sentiva. “…Nessuno aveva dormito, la notte: ammassati nelle cucine come emigranti nelle stive, avevano udito nel notturno silenzio una detonazione sorda. E tutti a ogni scoppio sussultavano: questa sarà la mia casa, la casa di mia madre. Tre uomini si erano alzati d’improvviso ed erano andati alla macchia a raggiungere i partigiani. La carovana rallentò il passo ed il giovane tacque. Erano arrivati, ci dissero entrando in un sentiero di pietre alte e grigie. Infatti, quasi d’improvviso, alla svolta di un ponte, ci trovammo al limite del paese. La carovana si arrestò, i contadini si ammassarono, zitti, formando una gran massa compatta. Oltre le loro teste ci affacciamo anche noi, quasi a una finestra. Tornareccio non c’era più. Una volta era stato un paese tranquillo, disteso in mezzo a una radura verde. Adesso, tra le macerie sgretolate, tra gli ammassi di rovine che cancellavano strade e piazze, soffocavano i giardini, s’alzava ancora qualche casa miracolosamente scampata, lugubre e solitaria come un dente nella bocca di un vecchio. La chiesa era stata squarciata quasi per una folgore e dalla crepa profonda si affacciavano gli angeli d’oro venuti giù dal soffitto. Dagli interni sventrati volti buoni e gravi pendevano nelle cornici degli ingrandimenti. In ogni abitazione la mina era stata posta nel focolare, nel cuore della casa, insomma. E da lì, come da un boccascena, i resti dei poveri interni si mostravano in tutto il loro squallore…”
Aiutati dai partigiani, percorsero a piedi le campagne abbandonate cosparse di mine, fino a guadare gli argini del fiume Sangro, per poi raggiungere Bari. Alba con il suo quaderno di racconti scritti nel bosco, poteva finalmente godersi la fragile atmosfera dell’Italia appena liberata. Sotto lo pseudonimo di Clorinda, prestava la sua voce a Radio Bari, la radio gestita dagli Alleati, ex-EIAR, l’emittente radio di propaganda fascista inaugurata nel 1933, che trasmetteva i notiziari in arabo, e altre lingue. Nel dicembre 1943 Alba de Céspedes conduce la trasmissione L’Italia combatte! “È una donna che vi parla stasera […]. Una donna che ha lasciato la sua casa in due ore, si è cacciata in un treno all’alba, ha avuto giorni difficili fuggendo dai tedeschi di paese in paese, e poi ha deciso di guadare il Sangro e traversare le linee di fuoco per venire da questa parte. Ma stasera io non vi parlo in veste di giornalista e scrittrice. Stasera io voglio parlare da donna alle innumerevoli donne italiane che aspettano il ritorno dei loro uomini che sono quaggiù…”
Durante le trasmissioni venivano diffusi gli aggiornamenti dei combattimenti, gli elenchi con i nomi dei collaborazionisti, i comunicati tracciavano sentieri di salvezza nei messaggi in codice diretti ai partigiani che ancora combattevano: “Attenzione, attenzione, vi trasmettiamo dieci messaggi speciali, La messa è finita, il gallo canta, Tira vento, Tre per tre, Maria si prepari, Abbi fede, La gavetta è vuota…”.
Intrecciando le fila della speranza e della determinazione, Clorinda incoraggiava gli ascoltatori, esortava gli italiani e le italiane, in particolare invitava le donne a trasformare la routine domestica e lavorativa in silenziosa resistenza. “Credete di non poter far nulla, voi, chiuse nel giro della vostra vita consueta, casa e ufficio, casa e ufficio. Credete. E invece io vi dico che potete, voi, proprio voi, col vostro grembiulino nero, davanti alla vostra macchina da scrivere, essere altrettanto utili di un patriota o di un soldato. Ci sono anzi cose che essi vorrebbero fare e non possono, cose che non potete fare che voi. A voi sono dettate certe lettere che avrebbero, a volte, tutt’altro significato con un piccolo errore di macchina, con una parola saltata. Ordini importantissimi vengono dattilografati da voi e una data alterata può essere più utile di dieci fucili. Siete voi che aprite la corrispondenza e potete stracciare una lettera che giudicate dannosa. Tante lettere non arrivano, anche quella non è arrivata. E così per le lettere in partenza. […] Sbagliare un indirizzo è poi ancora più facile. […] Vi chiediamo un continuo, sordo sabotaggio sotterraneo. Ricordatevi che per essere un patriota è necessario odiare i tedeschi e i fascisti. Voi li odiate, lo so. Ma dovete odiarli dal mattino alla sera, pensando, studiando continuamente il modo di nuocere loro. E vi sentirete più forti, dentro di voi, dopo il piccolo errore alla macchina, dopo la lettera strappata o spedita in ritardo, vi sentirete complice o compagna dei patrioti che combattono sulle montagne, di noi che siamo qui, esuli, lavorando per la libertà…”
Sulla scia dell’entusiasmo e della determinazione, Alba de Céspedes aveva creato una rivista, fucina di idee libere e visioni innovative: Mercurio, un mensile di politica, arte, scienze, un balcone, come lei stessa l’aveva definito, da cui guardare il futuro dell’Europa e del mondo nuovo. I primi numeri ospitarono le firme di Alberto Moravia, Ernest Hemingway, Massimo Bontempelli, Sibilla Aleramo, con i disegni di Mino Maccari, Toti Scialoja e Renzo Vespignani. Di questa esperienza resterà traccia nelle pubblicazioni del dopoguerra. I racconti del bosco dell’Abruzzo trovarono spazio nelle Pagine dal diario, scritto dal 18 ottobre al 18 novembre 1943, pubblicate su un numero speciale dedicato alla Resistenza, così come la raccolta delle veline delle trasmissioni radio rivivono nel libro, È una donna che vi parla, stasera.
Il rapporto tra Alba de Céspedes e la Storia non fu mai interrotto, era iniziato nel 1935 con una raccolta di racconti brevi, L’anima degli altri, dove descrive tra le altre cose, l’atmosfera dell’Italia sanzionata dalla Società delle Nazioni per l’attacco contro l’Etiopia. La pubblicazione le valse l’accusa di antifascismo e la reclusione per diversi giorni nella sezione femminile del carcere di Regina Coeli, anche il suo primo romanzo, Nessuno torna indietro, pubblicato nel 1938 da Mondadori, divenne oggetto di censura a causa dei personaggi femminili considerati trasgressivi per l’epoca, contrapposti all’immagine della donna propagandata dal regime fascista. Ma l’editore Armando Mondadori, legato da una forte amicizia con l’autrice, si rifiutò di ritirare il libro già in commercio.
Rientrata a Roma nel giugno del 1944, Alba de Céspedes allargò le sue frequentazioni letterarie con diversi scrittori, tra questi, Paola Masino, Natalia Ginsberg, Anna Banti, Maria Bellonci, Ottiero Ottieri, Elio Vittorini e altri, con Italo Calvino (italo-cubano), fondò l’Associazione di Amicizia Italia-Cuba, oltre che all’intensa attività giornalistica su Epoca e La Stampa, in quel periodo diede vita a numerosi romanzi: Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Prima e dopo (1955), Il rimorso (1962), La bambolona (1967), Nel buio della notte (1976). All’inizio degli anni Settanta pubblica una raccolta di poesie, Le ragazze di maggio, sulle rivolte studentesche del ’68 a Parigi, città dove era andata a vivere per sempre.
Tuttavia, la produzione letteraria di Alba de Céspedes ha avuto un ruolo marginale nella letteratura italiana di quel periodo. Il suo valore letterario era stato ignorato da critici e intellettuali, in un’epoca di egemonia culturale prevalentemente maschile venne relegata al ruolo di scrittrice borghese di letteratura rosa perché i protagonisti dei suoi romanzi erano donne.
“Sulla grande carta del mondo questo bosco è un granello di polvere e io sono una parte infinitesimale di esso. Eppure è qui che si decide tutto per me…”, scrive Alba, alias Clorinda, nel diario del bosco, chissà se gli ultimi giorni di vita ha ripercorso con la mente quei sentieri e i cieli stellati.
Alba de Céspedes muore a Parigi nel 1997.
Riquadro: ritratto di Alba de Cespedes nel suo studio