Sandro Veronesi, Settembre nero, Milano, La Nave di Teseo, 2024
Il titolo di questa mia recensione è in contrasto con quello che, a mio del tutto soggettivo modo di pensare, dovrebbe tendenzialmente essere l’approccio a un libro. Un libro penso vada affrontato e, nel caso. vagliato, per quello che è in sé, una singola creazione letteraria, sulla base della sua qualità, così come valutata dal giudizio, ancora una volta: del tutto soggettivo, di chi recensisce. Non come emblema di qualche cosa d’altro come una poetica, un filone letterario, una scuola di pensiero, una ideologia. Parlo naturalmente di una normale recensione e non di storia o di approfondita saggistica letteraria. Mi rendo conto quindi di contraddirmi se, leggendo Settembre nero, l’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, non ho potuto fare a meno di lasciarmi andare a qualche considerazione di carattere generale, forse anche general-generica, sulla sua coerente, e comunque talentosa, tipicità.
Veronesi è uno dei migliori autori in circolazione di romanzi come vanno scritti, di romanzi giusti secondo i criteri di giudizio, assolutamente dominanti, che ispirano gli editori e i loro editor, le agenzie letterarie, la platea ormai enorme dei recensori più o meno influenzanti o influenzati e ultimo, ma giustamente alfa e omega nell’ispirare questi criteri di giudizio e nel farsi da essi ispirare, i lettori acquirenti. La sua opera è di conseguenza confortata da vendite, da premi letterari, da critiche encomiastiche e per lo più svolazzanti e rituali.
Tutto questo, lo dico in maniera convinta e senza alcuna ironia critica, è normale e va benissimo. Dobbiamo in primo luogo, non mi stanco mai di ripeterlo, rispettare il fatto che l’editoria è una industria con obiettivi economici. Dobbiamo, in secondo luogo, rispettare il fatto che uno scrittore va valutato nel suo contesto e sulla base di quello che vuole essere. Se, non tanto lui quanto il sistema economico-produttivo editoriale e critico, si pone come autore di capolavori, la critica più avveduta, e magari supponente, può ragionevolmente attaccarlo. Se invece si pone come un buon autore di romanzi modellati sulle caratteristiche giuste del mercato in cui si muove, allora, se ha talento, se ne può dire bene. E di Veronesi come scrittore pesce perfettamente nell’acqua del nostro attuale sistema produttivo della narrativa, non si può dire che bene, con l’avvedutezza però di astenersi dagli encomi spesso risibili che si leggono e si ascoltano su di lui come autore di capolavori o in grado di affrontare alla grande temi universali etc.
Cerco di dare una rozza idea di quella che ho definito emblematicità o tipicità, definite e incoraggiate dalla combinazione di reciproche influenze tra editoria e pubblico. Scrittura buona e piana, scorrevole, leggibile, consapevolmente mai gran che elegante e volutamente priva di originalità. Storie private e quotidiane di persone-personaggi plausibili che, pur facendo cose alle volte inusuali, e Caos calmo ne è l’esempio più riuscito, suscitano identificazione nel lettore medio; per quanto riguarda Veronesi si è parlato di eroi normali. Organizzazione narrativa costruita sui ricordi: scrivere in prima persona i ricordi dell’adolescenza, della gioventù, degli amori, dei dolori, degli ambienti e dei luoghi e via dicendo, è ormai un’abitudine dilagante, con un gusto gozzaniano delle piccole cose della vita il più delle volte familiare, con una valorizzazione emotiva e a tratti nostalgica di un piccolo mondo antico. Che so: l’Abruzzo tardo contadino, una nonna, scene familiari, la reggia di Caserta dove si entrava clandestinamente da bambini, la Versilia borghese, Roma com’era; con quasi sempre a corollario qualche giudizioso flash su fatti e temi esterni al piccolo mondo antico, ma anche essi giusti, di quelli che martellano ubiqui e corretti la nostra sensibilità, che deve essere anch’essa giusta. Questo tipo di letteratura, nei recensori benevoli, evoca costantemente apprezzamenti molto ma molto sommari, tipo “uno spaccato della società”, “una rappresentazione vivida della vita” etc.
(Quasi) sempre obbligatori sono i buoni sentimenti che inteneriscono; in una recensione su Il colibrì ho trovato la parola commovente e la commozione non guasta mai. E una imprescindibile dose di politically correct, oggi conditio sine qua non per essere accettati da un editore; in Veronesi però sempre molto discreta, direi seria. Da aggiungere una costruzione del racconto che faccia presagire, in maniera più o meno plateale, sviluppi tali da tenere alta la curva dell’attesa e dell’attenzione. Insomma, ripeto: il romanzo come va scritto, il romanzo giusto. Veronesi ne è maestro e Settembre nero è in tutto e per tutto emblematico del romanzo come ci si aspetta che debba funzionare nel nostro tempo.
Gigio Ballandi, ormai sessantenne, racconta la sua ultima estate in Versilia, quella del 1972, l’anno della strage alle Olimpiadi di Monaco (Settembre nero). Nel 1972 Gigio ha dodici anni e vive delle esperienze molto rilevanti per un giovanissimo timido ma dentro di sé in realtà forte: i suoi rapporti con la famiglia; la scoperta del primo, grande, amore per la tredicenne Astel; il rapporto con il misterioso zio Giotti, maestro della forza, come felicemente scrive la nota editoriale che accompagna il romanzo; la sua rapida crescita interiore, la presa di coscienza di significare qualcosa di fronte agli altri e soprattutto a sé stesso. Questa estate, minuziosamente raccontata in una combinazione felice tra le vicende psicologiche del non più bambino e non ancora ragazzo e gli elementi ambientali, viene a un certo punto bruscamente, direi quasi brutalmente rotta da un evento iper-annunciato durante tutto il libro e di cui non dirò, per lasciare a chi non abbia ancora letto il libro il gusto del disvelamento quasi a ridosso della conclusione.
I libri di Veronesi che ho letto tendono a modulare la prima parte sul racconto gozzaniano per poi decollare, dal punto di vista della forza espressiva e della capacità di attrazione, nella seconda. Se pensiamo al Colibrì, l’ultimo terzo del romanzo è molto forte e riuscito. Settembre nero si snoda in maniera simile ma, è questo il motivo del mio titolo Emblematico e leggermente minore, il momento del decollo drammatico, troppe volte annunciato durante la parte gozzaniana, non è molto pregnante. Possiamo dire che, dopo un notevole ma molto breve impatto, si sgonfia subito e lascia il lettore a domandarsi, dopo tanti annunci, dopo tante pagine da quadretti versiliani “di formazione” tenute su dall’attesa dell’evento catastrofico: “Tutto qui?”.