In morte di Vladimir Il’ič

Sul finire del 1921 Vladimir Il’ič aveva iniziato a lamentare ai medici messigli a disposizione dal Politburo continui mal di testa e una crescente spossatezza. Da quattro anni lavorava sedici ore al giorno, partecipando a riunioni, scrivendo articoli, discutendo animatamente con gli altri dirigenti del partito, prendendo decisioni difficili, per non dire drammatiche.
Il 25 maggio 1922 un ictus lo colpisce al lato sinistro del corpo, privandolo dell’uso della parola per alcune settimane. L’estate di convalescenza a Gorki trascorre tra “continui litigi con i medici e tentativi di tenere in riga i membri del Comitato centrale, che già cominciavano ad affilare le armi per la successione.” (Guido Carpi, Lenin, il rivoluzionario assoluto, 2023). Alla fine dell’estate – nonostante una graduale ripresa fisica – diventano evidenti i sintomi della depressione. Benché dissimulata e tenuta nascosta – complice la moglie Kostantinovna Krupskaja – la depressione aveva accompagnato gran parte della vita di Vladimir Il’ič. Le prime avvisaglie si erano manifestate nel 1902, alla vigilia del trasferimento della redazione dell’Iskra da Londra a Ginevra. Le altre due crisi note risalgono al 1914 ed al 1917. A ben vedere gli anni in cui si manifesta la depressione sono anche quelli in cui Lenin pubblica scritti importanti, o compie scelte decisive. Nel 1903 si getta con foga nella stesura definitiva del Che fare? Nel 1914, a seguito della spaccatura nel movimento comunista all’interno della Seconda Internazionale, matura la convinzione che il proletariato non ha nazione. Nel 1917 prende la decisione di precipitare la crisi russa e di avviare un processo rivoluzionario tutt’altro che scontato in un paese economicamente arretrato come era quello governato dagli zar. Tre anni cruciali, tre crisi depressive profonde, tre ritorni all’azione con scritti teorici e decisioni fondamentali. “(…) Metteva in tutto ciò che faceva – scrive Hélène Carrère d’Encausse nella biografia Lenin. L’uomo che ha cambiato la storia del ‘900, pubblicata nel 2000 – una tenacia ed una concentrazione assolutamente eccezionali; questa costanza in ogni sforzo che giudicava necessario gli conferiva una grande superiorità su coloro che lo circondavano, e che si mostravano spesso meno determinati. A più riprese questa caratteristica del suo carattere ebbe però anche degli effetti nefasti. Gli sforzi troppo intensi lo spossavano, logorando un sistema nervoso senza dubbio fragile.
Il 20 novembre 1922 Lenin appare pubblicamente per l’ultima volta all’assemblea generale dei soviet di Mosca. L’accoglienza è entusiasta, persino parossistica. “Spossato e visibilmente infermo, Lenin fa ripetuti gesti per riportare alla calma la folla, ma ogni suo tentativo viene coperto dalle grida.” Solo dopo un’ora di caos inizia un breve intervento e “(…) serrando i denti, le mani che si reggono spasmodiche al leggio, Lenin trova la forza di scherzare sulla propria malattia.” (Guido Carpi, Lenin, il rivoluzionario assoluto, 2023).
Nella notte del 18 dicembre 1922 arriva il secondo ictus. Stalin, segretario generale del Comitato centrale, lo isola definitivamente. Viene fatto divieto anche agli amici più intimi di frequentarlo e ad assisterlo restano, oltre ai medici, solo i famigliari stretti. Tuttavia Lenin sembra reagire: riprende a lavorare e a dettare appunti. Tre le segretarie a cui viene concesso di trascriverli: Nadezda Allilueva, moglie di Stalin, Lidija Foteva e Marija Volodičeva. Le prime due riferiscono al segretario generale, Marija è l’unica della quale si fida.
È difficile stabilire quanto i frammenti dettati da Vladimir Il’ič, noti con il nome di Testamento di Lenin, siano frutto di lucida analisi, di ansia depressiva o di una visione alterata della realtà. Addirittura Luciano Canfora, nel saggio La storia falsa del 2008, sostiene che il Testamento sarebbe una manipolazione voluta da Stalin per screditare Trockij. Nel documento Lenin affronta tre questioni: il trattato tra la Russia e le regioni di etnia diversa (compresa la Georgia); il pericolo rappresentato dal crescente potere dell’apparato del partito; la successione e in particolare il rischio di scissione a causa degli attriti tra Stalin e Trockij. Sebbene – a mio parere – Lenin identifichi con precisione le questioni cruciali del futuro prossimo della Russia, non riesce a sviluppare soluzioni efficaci. In particolare il giudizio su Stalin resta sospeso. Il 4 gennaio 1923 però qualcosa cambia. In questa data detta alla Volodičeva una postilla al Testamento: “Stalin è troppo rozzo e questo difetto, per quanto tollerabilissimo in mezzo a noi e nel trattare tra comunisti, diventa intollerabile in un segretario generale. Per questo motivo suggerisco che i compagni pensino al modo di rimuovere Stalin (…)”.
Ma è troppo tardi. Le tensioni si acuiscono. Stalin dopo aver saputo che la Krupskaja ha aiutato il marito a scrivere e a recapitare una lettera a Trockij, le telefona e la insulta. Quando, nei primi giorni di marzo, Lenin viene a saperlo, detta un messaggio lapidario: “Egregio compagno Stalin, avete avuto la grossolanità di insolentire mia moglie al telefono. Benché lei vi abbia fatto sapere di essere disposta a dimenticare ciò che le avete detto, io non ho alcuna intenzione di dimenticare (…). perciò vi prego di farmi sapere se acconsentite a ritirare le vostre parole e a scusarvi, o se preferite rompere i rapporti tra noi.” Stalin lo legge commenta: “Non è Lenin che parla ma la sua malattia.” Tuttavia risponde con una lettera di scuse.
Il 6 marzo uno dei medici di Vladimir Il’ič annota: “Se ne sta lì con l’aria affranta, un’espressione di spavento, gli occhi tristi dallo sguardo interrogativo, le lacrime che gli rigano il volto. Si è agitato, ha tentato di parlare, ma le parole non gli venivano e riuscì solo a dire: «Oh diavolo, oh diavolo è tornato il vecchio malanno»”.
Il 9 marzo 1923 giunge il terzo attacco che lo priva definitivamente della possibilità di parlare. Un nipote, giunto a Gorki per salutarlo, lo trova “seduto sulla sedia a rotelle con addosso una camiciola estiva dal colletto aperto (…) In capo aveva un berretto vecchiotto e il braccio destro gli giaceva in modo innaturale in grembo (…) Benché io stessi proprio in mezzo alla radura, non si accorse di me”.
Immobilizzato sulla sedia a rotelle, impossibilitato a comunicare con la parola, è un burattino senza fili. Vladimir Il’ič Ul’janov muore poco prima delle sette del pomeriggio nella casa di Gorki il 21 gennaio 1924. Oltre alla moglie, alla sorella e a due medici, è presente Nikolaj Bucharin.
La notizia della morte viene comunicata da Michail Kalinin il 22 gennaio 1924 ai delegati giunti a Mosca per il XIII° Congresso del partito. Nella sala si odono pianti e grida. In tutte le città della Russia teatri, botteghe e negozi restano chiusi per una settimana, migliaia di contadini affrontano spostamenti di centinaia di chilometri e temperature polari per recarsi a Gorki. Il feretro, nel percorso dalla stazione Paveleckij alla sala delle Colonne del Cremlino, dove è stata allestita la camera ardente, viene accompagnato da decine di migliaia di moscoviti e, nei giorni successivi, mezzo milione di persone si mette in fila per rendergli omaggio. Nel frattempo da tutta la Russia giungono migliaia di corone e milioni di dichiarazioni di cordoglio, firmate da collettivi operai, da reggimenti della guardia rossa, dagli equipaggi delle navi della flotta, da singoli individui. Per le strade di Mosca la gente scoppia in lacrime senza alcuna ragione apparente e resta ferma in mezzo alla strada a singhiozzare.
I funerali si svolgono il 27 gennaio, la domenica successiva il decesso, con una temperatura di trentacinque gradi sotto zero. La guardia d’onore, guidata da Stalin, pone il feretro su un palco di legno costruito al centro della Piazza Rossa; l’orchestra del Teatro Bol’šoj suona la marcia funebre di Chopin, seguita dall’inno rivoluzionario Caduto vittima e dall’Internazionale. Per ore ed ore una folla immensa, stimata in sei milioni di persone, sfila silenziosa nella piazza.
Alle ore sedici in punto la cassa viene posta nella cripta. “La portano a spalle in sei: Stalin, Molotov, Kalinin, Bukharin, Kamenev e Tomskij.” (Ezio Mauro, La mummia di Lenin, 2025)
In tutta la Russia le sirene delle fabbriche suonano all’unisono per qualche minuto. Un lamento lunghissimo attraversa il paese in lungo ed in largo. Poi i reggimenti dell’esercito schierati nelle piazze e nelle caserme e tutte le navi della flotta sparano dodici salve di saluto. Poco prima la radio aveva preso a ripetere un solo messaggio: “In piedi compagni! Il’ič viene deposto nella tomba.” Quando la cerimonia termina sulla Piazza Rossa, su tutta la Russia scende un silenzio spettrale. Poi la radio lancia un nuovo messaggio: “Lenin è morto, il leninismo vive!
Pochi anni dopo, Bukharin e Kamenev saranno giustiziati, Tomskij si sparerà un colpo di pistola, Molotov e Kalinin sopravvivranno ma con le mogli in ostaggio del Cremlino, processate, condannate, arrestate. Solo Stalin è indenne. Gli altri cinque, come dice un proverbio russo, portavano sulle spalle la loro sventura quel giorno sulla piazza Rossa, sotto gli occhi ormai di ferro di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin.” (Ezio Mauro, La mummia di Lenin, 2025)
Nonostante la richiesta della Krupskaja di leggere integralmente il Testamento di Lenin a tutti i delegati del XIII° Congresso del partito del 1924, il contenuto viene reso noto solo ai presidenti delle delegazioni regionali, tra l’altro senza consegnarne materialmente il testo. Per la lettura integrale del documento occorrerà attendere il XX° Congresso del partito del 1956. Sarà Nikita Chruščëv a leggerlo ai delegati.

Foto: Lenin a Gorki nel maggio del 1923 con la sorella ed uno dei suoi medici

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