Tra le acacie ammantate dal traffico, un gruppo di donne si erano radunate in una manifestazione silenziosa, incatenate l’una all’altra, non lontano da Nyayo House, un palazzo di ventisette piani, adiacente alla sede del parlamento keniano, sede dell’Intelligence e del suo seminterrato tristemente noto come “la stanza delle torture”. Era il 28 febbraio del 1992. Nel cuore della capitale Nairobi, in un angolo del Uhuru Park (Uhuru in swahili significa libertà), madri e mogli, di età compresa tra 60 e 80 anni, avevano indetto uno sciopero della fame: pregavano, distribuivano volantini ai passanti, rispondevano alle domande dei curiosi, in attesa della liberazione di figli e mariti, prigionieri politici, di cui da tempo non avevano più notizie. Il presidente del Kenya, Daniel Arap Moi, governava il paese dal 1978, senza nessuna voglia di mettersi da parte. In quei primi giorni di protesta pacifica furono donate delle tende alle madri per ripararsi la notte dal freddo e dalla pioggia. Simpatizzanti e cittadini comuni raggiungevano quell’angolo di parco a portare solidarietà prima di andare al lavoro, alcuni lasciavano bottiglie di acqua e bevande zuccherate. Intanto lo sciopero della fame continuava, destando l’attenzione della stampa locale e straniera. Dopo cinque giorni, arrivò la carica della polizia con lacrimogeni e manganelli. Quel raduno doveva essere disperso, e poiché rappresentava una minaccia per il governo, poco importava a quale prezzo. In realtà la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata la presenza di una donna molto determinata, “sopra le righe” per la società di allora, tacciata dall’entourage politico come: una pazza con il cervello bacato. L’organizzatrice della protesta “Mama Miti”, la madre degli alberi, era la professoressa Wangari Maathai, fondatrice e coordinatrice del Green Belt Movement, (organizzazione che si occupa di ambiente e di diritti civili), che aveva presentato una petizione al procuratore generale, chiedendo il rilascio di 52 prigionieri politici: studenti, giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani, in carcere per presunte azioni antigovernative. In quegli anni qualsiasi forma di dissenso politico, dal volantinaggio, al raduno pacifico, all’informazione via radio e stampa, veniva represso dal governo con l’esecuzione di fermi, interrogatori, detenzioni e torture. Wangari Maathai, conosceva bene Uhuru Park, polmone verde della città, luogo di ritrovo per le famiglie, salvato qualche anno prima da uno scempio: la costruzione di una torre di sessanta piani, con uffici, un centro commerciale, parcheggi e sede del partito unico al potere, il Kanu; nel 1989, Maathai aveva indetto una protesta durata anni, grazie alla sua tenacia, il parco era rimasto integro, e tuttora è un luogo caro ai Nairobians. Per l’ennesima volta, il 3 marzo 1992, a pochi giorni dall’inizio del raduno delle madri dei prigionieri politici, Maathai fu tra le prime ad essere bastonate dalla polizia.
Durante quei giorni concitati, io c’ero. Gli automobilisti e i pedoni circolavano come impazziti in preda al panico: il fumo acre dei lacrimogeni e gli spari bloccavano le strade di accesso verso il centro della città. La carica dei poliziotti cominciò dentro le tende, tra le donne che urlavano inseguite e picchiate brutalmente con i manganelli, innescando una situazione di caos pericolosa. Lo sciopero della fame aveva attirato l’attenzione dei media anche a livello internazionale, molti erano i giornalisti presenti a testimoniare il pestaggio delle madri inermi che sanguinavano copiosamente, soffocate dai lacrimogeni fino a svenire. Qualcuna urlava, “Che razza di governo è questo che picchia le donne! Uccideteci adesso! Moriremo con i nostri figli!” Nel frattempo, le urla della prof.ssa Maathai si udivano distintamente, mentre veniva picchiata dai poliziotti fino a renderla priva di sensi, poi fu trasportata d’urgenza in ospedale. Ad un certo punto, alcune madri, spaventate, iniziarono a spogliarsi, mettendo in atto una vera e propria maledizione: mostrare la propria nudità per proteggersi. Fu toccante vedere le donne anziane, esauste, costrette a denudarsi. A quel punto i poliziotti smisero di inseguirle.
Wangari Maathai, prima donna africana a ricevere il Nobel per la Pace nel 2004, ha raccontato quei momenti drammatici nella sua autobiografia: Unbowed, (nella traduzione italiana Solo il vento mi piegherà, Ed. Sperling & Kupfer, 2006).
“Venerdì 28 febbraio 1992, cinque madri, le loro sostenitrici e io ci incontrammo al Parco Uhuru e ci recammo con le coperte all’ufficio del procuratore generale. Ci ricevette, e io feci da interprete, mentre le donne spiegavano i motivi per cui erano lì. Alla fine dell’incontro, comunicammo che saremmo tornate al Parco Uhuru ad aspettare che i prigionieri fossero rilasciati. Il procuratore fu preso alla sprovvista. «Non andate al parco», rispose. «Andate a casa. Abbiamo ricevuto la vostra petizione e riesamineremo i casi, dopo di che prenderemo provvedimenti.»
[…] La sera arrivò e i figli non si vedevano ancora. Accendemmo cinquantadue candele, una per ogni uomo che, fra i nostri conoscenti, era in prigione. Causammo quasi un ingorgo all’angolo, perché tutti gli automobilisti rallentavano per guardare le luci tremolanti nel parco[…]
[…] Il 3 marzo, sorse un’alba mite e soleggiata. Durante la mattina vedemmo gruppi di paramilitari, con pistole e manganelli pronti all’uso, che circondavano l’area per evitare che chiunque altro potesse raggiungerci […] “
Nulla riusciva a fermare la protesta. Inutili i tentativi del governo di corrompere e dividere le madri, mettendo in cattiva luce i propositi di Wangari Maathai. Le donne erano fuggite dall’angolo del parco soprannominato Freedom Corner, per rifugiarsi all’interno della All Saints Cathedral, dove furono accolte per tutto il periodo della protesta, intimidite dalla presenza dei militari che pattugliavano il sagrato della chiesa minacciando irruzioni per arrestarle. Una sfida epocale che durò quasi un anno, per fortuna a lieto fine.
“La veglia terminò all’inizio del 1993, quando improvvisamente tutti gli uomini, eccetto uno, furono rilasciati (il cinquantaduesimo prigioniero, sapemmo da fonti informali, era stato arrestato sulla base di accuse non politiche. Release Political Prisoners adottò il suo caso e continuò a lottare. Alla fine, nel 1997, anche lui fu liberato). Dopo il rilascio dei detenuti, tenemmo una funzione di ringraziamento ad All Saints. Durante la celebrazione, diedi a ciascuna donna un «diploma per la resistenza», e so che alcune di loro continuano a tenerlo appeso in casa […]”
La protesta aveva dato un notevole contribuito alla sconfitta del regime totalitario del presidente Moi, avvenuta dieci anni dopo. Intanto, Wangari Maathai continuava a piantare alberi e a sensibilizzare le donne negli angoli più remoti del Kenya. Insegnava loro a difendere sé stesse e l’ambiente nel quale erano nate e cresciute, nel modo più semplice possibile: cercare semi nelle foreste vicine, interrarli e creare dei vivai nei villaggi. In cambio, ricevevano un piccolo stipendio che permise loro di diventare parte attiva del Green Belt Movement, un progetto nato per contrastare il disboscamento delle zone rurali del paese, che alleggeriva la fatica delle donne costrette ad avventurarsi per lunghe distanze alla ricerca di legna da ardere. Ancora oggi in molte zone dell’Africa il fuoco è essenziale per scaldarsi e preparare da mangiare.
L’attivismo e la militanza sulla propria pelle, sono state una costante nella vita di Wangari Maathai, sempre in prima linea, malgrado le continue persecuzioni e diffamazioni, non si era mai tirata indietro, soprattutto quando si trattava di difendere i diritti dei più deboli.
Il percorso singolare di Wangari Muta Maathai, nata nel 1940 a Nyeri, in Kenya, è ben descritto nella sua autobiografia. Figlia di contadini, fin dall’infanzia, trascorsa in un villaggio sugli altipiani, ha mostrato un temperamento indomito e appassionato. Brillante negli studi, ha frequentato le scuole gestite dalle suore comboniane. Negli anni ‘60, durante l’era Kennedy, ottiene una borsa di studio negli Stati Uniti, diventando una pioniera sotto molti aspetti. Dopo aver conseguito la laurea in biologia, nel 1966, consegue un dottorato in scienze biologiche, in un periodo in cui pochissime donne africane avevano accesso a un’istruzione universitaria, specialmente all’estero. Dopo il rientro in Africa, avvenuto all’indomani dell’indipendenza, ha affrontato un matrimonio e il successivo divorzio, in una società che condannava senza mezzi termini le donne divorziate. Nonostante le difficoltà, fonda il Green Belt Movement, un progetto rivoluzionario contro il disboscamento selvaggio. Grazie alla sua iniziativa, negli anni sono stati piantati oltre trenta milioni di alberi, contribuendo a salvare i polmoni verdi più importanti del Kenya.
Senza dimenticare le campagne di sensibilizzazione contro la discriminazione etnica e sessuale, che le valsero numerosi riconoscimenti internazionali, malgrado le persecuzioni e il carcere negli anni bui del governo Moi. Wangari nel libro racconta la dolorosa sospensione della sua carriera all’Università di Nairobi per motivi politici, fino alle speranze riaccese dalle elezioni democratiche del 2002, quando fu eletta in Parlamento: sottosegretario al Ministero dell’Ambiente. Ma, il momento clou della sua esistenza, il riscatto di tutta una vita, è segnato dal premio Nobel per la Pace del 2004: per il suo contributo allo sviluppo sostenibile, ai diritti umani e alla pace. Quel giorno, Wangari Maathai viaggiava dentro un furgoncino con il suo staff lungo una strada sconnessa e piena di buche. Tra le interferenze e i sobbalzi, ricevette una telefonata da Oslo: era stata informata della vittoria del Nobel.
“Mi hanno appena detto che ho vinto il premio Nobel per la Pace”, annunciai con un sorriso a me stessa e a quelli che erano con me, mentre spegnevo il cellulare e tornavo ai passeggeri che mi stavano intorno. Sapevano che non era uno scherzo, perché la felicità che si irradiava dal mio viso non poteva essere fasulla. Ma, nello stesso tempo, le lacrime cominciarono a rigarmi le guance, mentre mi giravo verso di loro. Avevano tutti un gran sorriso stampato sul volto; alcuni si congratularono a voce alta e mi abbracciarono, un po’ per confortarmi e un po’ per esprimere la loro gioia, lasciando che le lacrime cadessero sulle loro calde spalle e nascondendomi il viso da alcune persone dello staff che secondo loro, non dovevano vedermi piangere. Ma quelle erano lacrime di grande gioia per un momento straordinario! […]
Era un giorno di ottobre del 2004. La notizia si era diffusa come in un tam-tam, del resto era un evento eccezionale: Wangari Maathai è la prima donna africana a ricevere un premio Nobel.
Quella mattina venne sommersa di telefonate da tutto il mondo. Lungo il tragitto si fermarono allo storico Outspan Hotel di Nyeri, non lontano dalla tomba di Baden-Powell, per celebrare con quello che più di tutto aveva segnato la sua vita da sempre: una piantina e un badile.
“Circondata dalla stampa nazionale ed estera, dagli ospiti e dagli impiegati dell’hotel, mi preparai a piantare questo resistente arboscello lungo il bordo del verde cortile, da cui si gode la vista, in lontananza verso nord, dell’imponente Monte Kenya. Mi inginocchiai, misi le mani nella terra rossa e calda per il sole e sistemai la pianticella nel terreno. Poi mi diedero un secchiello d’acqua e annaffiai l’albero. Ero proprio di fronte al Monte Kenya, mia fonte di ispirazione per tutta la vita, così come lo era stato per altre generazioni prima di me […]”
Nulla di più appropriato per la prof.ssa Wangari Maathai. Un traguardo raggiunto dopo un’esistenza non facile, dopo gli sforzi di una vita, vissuta per combattere la repressione, la discriminazione, gli abusi di potere, la corruzione, come quando in cambio dei voti venivano donati vasti appezzamenti demaniali; le battaglie estenuanti che nei momenti di sconforto spesso le apparivano inutili, così le sue idee di giustizia che venivano ribaltate con la violenza e il terrore. Ma niente è andato perduto! Ancora oggi, dopo la sua morte, avvenuta nel 2011, i semi piantati, e le idee, continuano a crescere, e come si usa dire in quelle latitudini: “A luta continua!”