Le uova del drago di Buttafuoco: una domanda inquietante

Pietrangelo Buttafuoco, Le uova del drago. Una storia vera al teatro dei pupi, Milano, Mondadori, 2005

Premetto subito che, sulla base di quello che conosco di lui, considero Pietrangelo Buttafuoco un intellettuale di spessore. Metto le mani avanti? Si, metto con convinzione le mani avanti perché la mia premessa è sincera, non di maniera, e per cercare, nei limiti dell’umano, di sganciare queste mie righe su di lui dalla stucchevole e faziosetta polemica tra destra e sinistra sempre inevitabile e imprescindibile nel parlare di cultura in Italia.

Premetto poi, in secondo luogo, che tra le cose che conosco di lui non c’era, fino a non molto tempo fa, il suo libro più famoso, Le uova del drago, pubblicato nel 2005 e poi rieditato varie volte. Preso da curiosità, l’ho alla fine letto e, diligentemente, sono andato a esplorare il vivace dibattito letterario-politico che accompagnò l’uscita di questo romanzo variamente definito come divisivo, caso letterario, esoterico, barocco, mitologico, liturgico e via dicendo; un dibattito in fondo elementare, con i commentatori divisi in due armate schiere, una di destra e una di sinistra. Tra costoro gli ex, come sempre, sono i più eccessivi: ad esempio Giuliano Ferrara, trasmigrato dal comunismo alla destra, parla di capolavoro.

Dibattito elementare per un caso letterario in fondo elementare anch’esso: Le uova del drago è un romanzo forse un po’ troppo ambiziosamente complicato, e perciò non si sottrae all’impressione di essere un po’ confuso, opera di uno scrittore di talento e culturalmente di destra, il cui animo e le cui emozioni non si attivano per la destra conservatrice, timorosa e benpensante, bensì per quella estetizzante e spiritualeggiante, la destra dell’onore, del volare alto verso la luce sopra il basso materialismo della società borghese, la destra che ritroviamo nei manifesti dei gruppi politici giovanili molto presenti nei quartieri di Roma nord ovest. Direi alla fin fine uno scrittore culturalmente fascista, almeno vent’anni fa quando ha scritto il romanzo. Questo è stato l’unico vero tema del dibattito, l’unico movente degli apprezzamenti ma soprattutto delle stroncature che ha ricevuto. Ovviamente non ho intenzione di recensire a distanza di così tanto tempo il romanzo di Buttafuoco, né di intervenire nella contrapposizione tra buoni e cattivi di cui il dibattito culturale italiano non può proprio fare a meno. Desidero solo dedicare qualche considerazione sulle vibrazioni profonde dell’animo, sulle emozioni più palpitanti dell’autore rapportandole al momento geopolitico che stiamo vivendo. Per poi alla fine pormi una domanda.

Le convinzioni politiche di Buttafuoco lo portano a rovesciare la narrazione largamente dominante delle vicende della guerra in Italia prima e dopo l’8 settembre 1943 e ha certamente il pieno diritto di farlo. Nel suo romanzo chi si è schierato dalla parte degli alleati sbarcati in Sicilia è un traditore senza onore, l’invasione americana fa chiudere sulla carne della Sicilia tutto il reticolo d’ombre e omertà che il fascismo aveva combattuto con successo, eroi sono coloro che si impegnano a sparare addosso a liberators e badogliani, eroi e veri patrioti sono coloro che hanno continuato a combattere a fianco dei Tedeschi. Questo giudizio storico si congiunge inestricabilmente, nella complessa e linguisticamente ardita narrazione di Buttafuoco, con un sistema di valori prepolitico, un sistema di valori esistenziali e antropologici che sono spesso tipici di una certa cultura di destra e che dà luogo a quelle che ho chiamato le vibrazioni profonde, le emozioni più palpitanti dell’autore. Dunque, di nuovo, onore, purezza, fastidio per tutto quello che è ritenuto razionalista, materialista, per la grettezza di chi fa calcoli, di chi non risplende della fierezza della volontà pura. Dunque, tradizione, mito, eroismo anche gratuito, estetismo e nostalgia per un passato che è sempre migliore del presente, per pulsioni arcaiche, per conoscenze gnostiche che i regimi fascista e nazista si sono evidentemente fatti carico di difendere e di riproporre.

Ed ecco il punto che mi ha inquietato: il regime nazista. Quello che Buttafuoco sente, pensa, scrive è culturalmente lecito e tra l’altro le sue vibrazioni ed emozioni sono sempre molto sorvegliate, attente a non tradursi in plateali esaltazioni di ciò che oggi per la maggior parte degli Italiani sarebbe (forse?) inaccettabile. Ma i sorvegliati ma appunto vibranti, molto vibranti anche se elegantemente simulati, sommovimenti dell’animo nei confronti dei Tedeschi, termine per quegli anni praticamente non distinguibile per sistema di convinzioni e per comportamenti da nazisti, i raptus di ammirazione dunque per i nazisti, non credo di averli mai incontrati nella letteratura italiana di livello. Buttafuoco sta molto attento, ma l’emozione-eccitazione trattenuta ma estatica, e anche estetica come accade spesso nella cultura di destra estrema, gli sfugge di mano.

Anzi ho l’impressione che non ci tenga nemmeno a dissimularla più di tanto. Dalla appena trattenuta emozione nello specificare che “quella donna”, la protagonista, era stata “scelta dal Fuhrer in persona”, alle Uova del drago “focolai di germinazione rivoluzionaria da destinare al futuro”: in soldoni la speranza che il lascito rivoluzionario del nazismo possa essere conservato e accudito in attesa di un suo ritorno dopo la sconfitta patita da parte di coloro che rappresentano la piattezza, l’affarismo e la corruzione di un occidente decadente. Dall’Africa Koprs e le sue leggende, ai Tedeschi per conto loro già quaranta passi avanti a tutti in ogni battaglia e che non mancano né di coraggio, né di onore rispetto ai traditori che abbondavano e al loro “obbligo di fellonia”. Dalla quasi commozione per i soldati germanici schierati sugli attenti, a tutto il restante armamentario di emozioni erede di una cultura italiana così mediocremente, e in qualche caso mi sentirei di aggiungere gregariamente, idealista e wagneriana. Non c’è una sola riga negativa, in mezzo a tanta ammirazione, per i teutonici orgogliosamente devoti al Fuhrer. Ripeto: tutto lecito anche se di queste vibrazioni nostalgiche e risentite, come sono state definite. nei confronti del fascismo ne incontriamo di frequente, mentre nei confronti del nazismo pressochè mai, almeno, e mi ripeto ancora, non nei testi dei picchiatori urbani ma nella cultura di livello.

E con un po’ di inquietudine mi chiedo: il fatto che una persona che non riesce a simulare queste vibrazioni per i valori, l’etica e l’estetica del forse peggior regime della storia umana, e questo pochi anni fa non in decenni ormai lontani, venga messa a capo di una delle principali istituzioni culturali del paese non può suscitare qualche perplessità?

Voglio essere molto chiaro. Non sto dicendo che chi la pensa in un certo modo non possa avere incarichi di responsabilità nella cultura, né sto dicendo che Pietrangelo Buttafuoco non sia una scelta valida dal punto di vista delle capacità culturali e progettuali per dirigere la Biennale di Venezia. Anzi, sono sinceramente convinto che sia un’ottima persona e un intellettuale tutt’altro che banale. E considero giusto uno sdoganamento della cultura di destra in un paese egemonizzato per decenni da una cultura di sinistra spesse volte di sconcertante faziosità. Esprimo solo un turbamento, direi un personale disagio al pensiero che questo sdoganamento, nel clima politico e negli assetti di potere che stanno prevalendo in occidente, possa andare troppo in là, ridando una qualche legittimità all’indicibile che fino al 1945 ha calpestato come mai prima anche l’ultimo residuo livello della dignità umana. Questo sdoganamento rischioso che c’entra con un evento di cultura antico e cosmopolita come la Biennale di Venezia?

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