Leone Papò 1

Mi chiamo Leone Papò. Sono nato ad Ancona nell’agosto del 1970. Ma mi sento romano, visto che i miei si sono trasferiti qua, nella capitale, quando avevo solo tre anni.
Nonostante soffra di mal caduco, sono riuscito a diventare un professore associato di Storia della Lingua Italiana presso Roma Tre. Sono sposato da più di dieci anni con Daniela, una donna severamente cordiale, e non ho figli. Ma non intendo parlare né del mio lavoro né di mia moglie. Non intendo soffermarmi né sull’ombrosa routine accademica né sulla vita abitudinaria di due cinquantenni sedentari. Mi sembra più interessante narrare di Sonia e delle sue vessazioni che tormentarono per circa quindici mesi i miei trent’anni.

Mi corre l’obbligo di aggiungere che, nel 2007, pubblicai a mie spese, con uno pseudonimo, Lepa, una raccolta di racconti autobiografici intitolata Bagliori evanescenti. Rimane l’unica mia prova di scrittore. Di quel libriccino – dalla copertina gialla resa grottesca da una sagoma femminile malamente raffazzonata con Photoshop – ne possiedo soltanto otto copie. Ieri ne ho sfogliata una. È risultato automatico il riaffiorare del passato, l’accorgersi che il tempo non ha rimarginato le ferite. Le ferite inferte dal dilaniamento dei sentimenti, si sa, rimangono perpetue. Difficile farci caso. Del resto, se si ha un callo su un dito di un piede si tende a dimenticarlo finché non s’infilano delle scarpe strette. E per me le scarpe strette sono state sostituite dal libriccino, il callo su un dito di un piede si è trasformato in un’angoscia coperta dalla quotidianità più scontata.

Perché ho aggiunto il particolare della raccolta di racconti autobiografici pubblicata una ventina di anni fa? Perché ho trovato singolare come in uno dei racconti, Non te ne accorgi neanche, io abbia attuato un cambio di genere.

Ho riflettuto sul primo incontro. Il calore sudaticcio del pub, io accasciato con Simone e Danilo sui gradini che davano all’uscita di sicurezza, lei seduta presso un tavolino obliquo rispetto a me. Mi fissava. Avevo le lenti a contatto un po’ logore, tuttavia percepii il nero seducente dei suoi occhi. Simone mi parlava di palestra. Io ero angosciato per la ressa e scosso per la bellezza di lei. Di lei che mi fissava! Cominciai anch’io a guardarla intensamente. Ivana e Cristina, le due amiche che stavano con lei, capìta la situazione, la lasciarono sola. Un chiaro invito per me. Lei era rimasta là, statuaria nella sua bellezza mediterranea, e mi attendeva. Dopo cinque minuti di esitazione, l’ho raggiunta. Preoccupato per la mia voce adolescenziale, le ho detto il mio nome e le ho chiesto se l’importunassi, se le desse fastidio se mi accomodavo accanto a lei. Il suo sorriso pudico mi sedusse ed entusiasmò. Pensai di avere raggiunto il finalmente tanto agognato. Stando a quanto mi ha più volte confessato Maria, lei condivise i miei pensieri, le mie aspettative.

Ebbene, accadde esattamente così. Solo che io ero Maria, lei il ragazzo intraprendente. Solo che io non sono mai stato una bellezza mediterranea, ma un omone dal viso scialbo e dalla pelle lattiginosa. In quelle poche righe sono stato generoso verso me stesso, forse a mo’ di risarcimento.

La serata dell’incontro coincide con il 15 febbraio 2003. La lunga chiacchierata si concluse con un bacio che preluse al primo periodo dell’unione che durò fino a inizio settembre.
A quei tempi ero un professore precario di liceo. Da settembre 2002 insegnavo e risiedevo ad Olevano Romano. Il mio giorno libero era il lunedì. Tornavo a Roma il sabato in tarda mattinata, per trascorrere là il week-end, lontano dalla visibilità asfittica del paese, libero di fare tutto ciò che volessi come fossi un ragazzo selvaggio.
A partire da fine febbraio trovavo lei ad aspettarmi a casa, felice come può essere soltanto una diciannovenne che rivede il fidanzato dopo qualche giorno. Subito ci abbandonavamo a un’intimità frenetica, eccessiva. Anche l’intesa sentimentale risultava magnifica. Perfetta l’affinità intellettuale, nonostante la differenza di età e nonostante le letture antitetiche. A quel tempo io mi ero ancorato a Sofocle, lei alla Santacroce. Ma sussisteva un problema rilevante che incrinava il nostro affiatamento: le sue crisi di gelosia, le sue grida quotidiane per qualche motivo insignificante, o inesistente.
Per riportare un paio di esempi, una volta Sonia cominciò a sbraitare su un autobus perché si accorse che io guardavo sovrappensiero una macchia d’olio sopra a dei jeans di un’ignara ragazza anonima. Un’altra volta perché aveva letto un messaggio sul mio cellulare – che lei controllava ogni giorno – in cui auguravo a una collega di rimanere in forma.
Ma fino agli esami di maturità la sua ossessione non era ancora sfociata nel delirio. Certo, mi proibiva di incontrare Luca (l’Ivana del racconto) perché una volta lui mi chiese se da adolescente avessi un debole per Pamela Anderson. Certo, mi costringeva, quando ero ad Olevano, a farle ogni mezz’ora uno squillo per dimostrare che non ero in compagnia di un’altra e che la pensavo. Certo, aveva strappato le foto nelle quali comparivo sorridente accanto a Monica, la mia ultima ex. Certo, non mi concedeva di ascoltare qualsiasi canzone di Amália Rodrigues perché le avevo confessato che era una cantante molto amata dalla stessa Monica. Ma Sonia non era ancora fuori controllo. Anzi, l’innamoramento reciproco sembrava solidificarsi sempre di più. Tanto che, da aprile, decidemmo di indossare entrambi una piccola fede d’argento.

La prima grande crisi scoppiò – come dicevo – con il ritorno a Roma dopo gli esami di maturità.
Era inizio luglio. Lei si trasferì da me. Tuttora ricordo vivamente l’abbraccio sognante che mi diede per suggellare l’inizio della convivenza estiva.
Ma il sogno si trasformò ben presto in un incubo.
Secondo lei io non passavo inosservato quando uscivamo a causa del fisico muscoloso: mi proibì di indossare magliette aderenti. Non bastò. Secondo lei le donne mi mandavano occhiate provocanti: m’impose di camminare a testa bassa. Non bastò. Secondo lei ogni mia conoscente trentenne poteva essere un’amante: mi vietò di rispondere al telefono se, nel rivelatore di chiamata, compariva un nome femminile. Poi le venne il dubbio che io avrei potuto mascherare un’amante nella rubrica del cellulare usando una falsa identità maschile. Allora telefonò a tutti i numeri collegati ai nomi di uomini da lei sconosciuti soltanto per sentire la voce ed attaccare. Chiamò perfino zio Giovanni.
Ad agosto andammo a Madrid.
Si sa, quando si viaggia si è più irritabili. La situazione peggiora se fa caldo. La pressione scende, il risentimento si accresce, il nervosismo sfocia in violenza, la tristezza passeggera si trasforma in malinconia ostinata. E in quell’estate umida e rovente nella capitale spagnola la colonnina di mercurio superò i 40 gradi. Sonia divenne irascibile fino al parossismo. Ad ogni mia osservazione non immediatamente comprensibile intravedeva una critica malevola verso di lei. E spesso sbottava ingiuriandomi davanti a tutti. A ogni mia sollecitazione di sbrigarsi lei vedeva una sorta di paternalismo pieno di disprezzo per la sua età. E, serrando i pugni, si metteva a piangere di rabbia senza rivolgermi la parola finché non urlava di nuovo frasi sconnesse. Ma il problema drammatico di quel soggiorno fu che la sua ossessività toccò il culmine, momentaneo, della sopportabilità. Dappertutto percepiva degli ammiccamenti nei confronti di qualche ragazza, anche se io continuavo a non alzare gli occhi dal marciapiede. Prima di scegliere un ristorante scrutava le cameriere. Non mi permetteva di chiedere la chiave quando tornavamo di sera in albergo perché aveva scoperto che il turno notturno spettava a una concierge belloccia.
Per sveltire la narrazione, riporto l’episodio più clamoroso connesso ai suoi deliri madrileni. Al Prado, mentre guardavo con disattenzione un quadro di Goya (chissà quale), mi sentii spingere e rischiai di rovinare sul dipinto. Era stata lei. Era entrata nella sala una ragazza conturbante. Io non me ne ero accorto. Lei, invece, sì. Per questo mi diede quella spinta preventiva.
Dopo un’estate di tormenti, riprese la scuola. Finalmente tornavo ad abitare a Roma. Perdevo la libertà dell’anonimato, dovevo piegarmi ai limiti imposti alla maschera del professore, ma per lo meno smettevo di fare avanti e indietro con quel paese a sei chilometri dal confine ciociaro.
Mi avevano affibbiato una cattedra scomoda, dieci ore in un liceo scientifico, otto in un classico. Ero uno spezzonista, come si diceva – e forse si dice ancora – nel gergo scolastico. Ma tale scomodità era compensata dalle dodici ore di Latino, dalle solo quattro ore di Italiano e dalle due ore a disposizione per eventuali supplenze (in pochi sanno che insegnare Latino sia molto più semplice che insegnare Italiano).
Inoltre, sarebbe stato l’ultimo anno da precario.
Sonia, il 2 settembre, tornò a Guidonia, dove viveva con la madre, e mi convinse a prendere una gatta, di cui scelse il nome senza chiedermi se concordassi: Nemesi.
Quello che accadde nei tre giorni seguenti lo descrivo con esattezza sempre in un racconto di Bagliori evanescenti: L’ultima settimana di Ilaria. Un racconto brevissimo in cui trascrissi degli sms reali da lei inviatimi:

MERCOLEDí 3 SETTEMBRE
«Basta, amore, io mi cerco un lavoro. Se tu vuoi – ma vuoi? – vengo a vivere da te già il prossimo autunno. Lo so, mi dispiace per mamma, ma io non posso più abitare qui, lontana da te e dall’università».
GIOVEDí 4 SETTEMBRE
«Ma porca miseria, potresti scrivere degli sms più caldi! Potresti aggiungerci un amó o un ti amo qualche volta. Io lo faccio sempre!».
VENERDí 5 SETTEMBRE
«Che bello, ci pensi, domani è sabato! Finalmente ci rivediamo! Finalmente conosco la nostra Nemesi!».
la notte:
«No, Leone, io non ti amo più, non potrò più amarti, e in futuro m’innamorerò di nuovo, ma non di te».

Non c’erano stati segnali premonitori. Non me lo aspettavo. Rimasi stordito. Ma per orgoglio non la chiamai. Anzi, andai perfino a letto con T., da sempre pronta a distrarsi con me. Tuttavia, appena uscito dal suo piccolo appartamento, fui assalito da un magone inatteso che presto si trasformò in uno sconforto insostenibile. Mi arresi. Telefonai a Sonia mentre ero da poco sceso dall’autobus che mi riportava a casa. Lei non rispose. Le inviai un messaggino nel quale affermavo di sentire la sua mancanza. Lei lo ignorò.
Due giorni dopo finii in stato epilettico. Fui fortunato perché entrai in coma a pancia in giù. Altrimenti, se fossi rimasto supino, sarei morto soffocato dal vomito.
Pare che io, durante una crisi e un’altra, sia riuscito a inviare un messaggio deformato dal t9 a Sonia, del tipo Ptm mmpdmdm agttamg ammpd, (Sto morendo aiutami amore), e che lei, capendo cosa significasse quell’sms, sia accorsa a soccorrermi insieme a papà, l’unico della mia famiglia quel giorno a Roma.
Così mi hanno raccontato, io ho dimenticato tutto. Quello che, viceversa, non ho dimenticato è che, un paio di giorni dopo, quasi lucido, chiamai Sonia per dirle di amarla pazzamente, ma lei, incollerita, mi sbatté il telefono in faccia accusandomi di ricattarla.
Mi diedero una ventina di giorni di malattia.
Il sabato precedente al ritorno al lavoro, riacquistata la salute, uscii con Luca, che si mostrò paziente verso i miei insistenti, reiterati piagnistei per l’amore finito. Ci recammo in un pub a via della Maddalena, in pieno centro storico, un pub che non esiste più. Il caso volle che lì incrociassi Sonia, che, non appena mi scorse, mi aggredì verbalmente perché mi vedeva in ottima salute e non distrutto a letto. Io non replicai, anzi chiesi a Luca di andarcene, non ero più abituato a dare spettacolo.
Mentre uscivo, sentii alle mie spalle una voce da lolita strillare: «Scappi. Vai a rimorchiare altrove? Bastardo!».

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