Domenica pomeriggio
Pomeriggio complicato e, aggiungerei, deprecabile. Anzi, senza tema d’iperboli altisonanti, pomeriggio alluvionale funestato da lampi spregevolmente acromatici che sono sgorgati a flussi pressocché ininterrotti dalla brutale insipienza di colui che viene definito dal nome impostogli dai genitori (Lorenzo) e dal cognome prestabilito dalla prepotenza della società patriarcale (Rossi).
Perché alluvionale non è un’iperbole altisonante? Caspita, perché sono rimasto fradicio internamente, inzuppato dall’acqua sporca della cattiva coscienza, gocciolante della perfida barbarie di chi se la canta e se la suona in fatto di civiltà. Magari per una semplice constatazione epidermica.
Nello scantinato in cui ha sede l’associazione trionfa il viola. Al di là di ogni riprovazione scaramantica si è valutato il rosa come una sorta di etichetta preconfezionata, il verde un rutilante nastro fragile di connotazioni stantie, il rosso una sovrapposizione propositiva ma pur sempre fuorviante, il blu una cafonata. Ed ecco le pareti tinteggiate fino a metà di viola, le scrivanie di truciolato riciclabile viola, gli sgabelli stile ikeano con sopra dei sottili cuscini viola (tranne uno), il dorso dei computer viola (le tastiere no), i pensieri viola. Come fosse un’iridescenza senza soste di sfilacciate rimembranze da bruciare, la seduta si è aperta con la lettura del comunicato: Compagnə, per un’equa designazione dell’operato e del ricavato, votate lə candidatə della lista collettivistica. Quindi Mary si è messa a elencare le ultime esigenze per una corretta consapevolezza del transfemminismo mensile.
Io ero seduto sullo scomodo sgabello stile ikeano senza cuscino viola, e rispondevo in maniera vigorosamente standardizzata alle e-mail di riprovazione, piene di vergogna! e di oggettivamente, digitando come un automa sui tasti neri. Se tralasciassi lo stadio di imbarazzata frustrazione che avvinghiava tutto me stesso, dalle sneakers alla kefiyyah d’ordinanza, nella penombra illuminata sinistramente da tre lampadine a luce fredda che rendeva lo scantinato una sorta di presumibile per quanto improvvisata stanza d’obitorio, cadrei nella malafede di chi è geneticamente bugiardo. Ma io intendo affrancarmi dalla coartazione genetica, almeno per quel che è possibile. E confessare che gli occhi chirghisi di Mary erano per me due fontane spietate che mi istillavano un imbarazzo colpevole. Tanto più se li confrontavo con le mie fontanelle italiane, perfino celesti nella loro aggressività avita. Come poi giudicare casuale, e non un frutto di un imputridimento scontato dei riflessi occidentalmente condizionati, la mia abituale indelicatezza europea? Sicché, per farla breve, nella foga del commento perentorio sulle novità sacrosante, Mary mi trafisse il dorso del piede destro con il tacco quasi a spillo delle finte ballerine.
«Scusa» e impresse nello sguardo l’espressione chirghisa del rammarico inconsolabile.
«Colpa mia non tua. Il mio quarantacinque si presta al calpestamento».
Ebbene sì, questa affermazione raccapricciante è sbucata dai meandri più reconditi della bestialità da perbenista maschio caucasian per raffazzonare una risposta che oltrepassasse il semplice «di nulla, può capitare».
Ero perdonabile? No, è chiaro. E chi non fosse d’accordo di sicuro pone un manganello sotto il guanciale di notte, come conferma del fascismo implicito in ogni gesto di galanteria già di per sé misogino. Ma era troppo tardi per rimediare. Quasi lagrimando ascoltai in silenzio – simile a quello imposto alle reclute dei film hollywoodiani – e accennai a una sequela di sì silenti mentre Mary gridava imbufalita: «Mai a soffermarti su chi soffre perché ha i piedi over size…. La tua insensibilità è disgustosa, t’è capì!».
Non gettai l’unica àncora a disposizione per non affondare nella palude lercia della costrizione personale e collettiva delle considerazioni più ripetute in quanto desolanti. Non lo feci non per mancanza di spirito d’intraprendenza. Ma perché, dopo un paio di minuti di contrizione, durante i quali escogitai una vieta deviazione dialogica per allargare la strettoia del rimorso e bloccare l’accetta della riprovazione, giunse la notizia divulgata con voce solennemente viola da parte di Egle, lo sguardo fisso sullo schermo del computer associazionistico: «Finalmente… anzi, ci risiamo! Un altro femminicidio. Come volevasi dimostrare. Una donna, dal marito sicuramente violento, si è uccisa nel biellese».
«Non ho parole perché lo so, è colpa anche mia» ho fatto in tempo a sussurrare prima che Mary – gli occhi sfavillanti dei riflessi sulfurei propri della steppa chirghisa – m’invitasse a lasciarle sole a elaborare il dolore e a rivendicare la giusta vendetta di genere.