L’incontro che determinò la svolta della mia vita avvenne la scorsa estate. Non ricordo la data precisa. So, con sicurezza, che era agosto, forse prima del quindici.
Sissi era nervosa quel giorno. Nonostante soffrisse particolarmente per il torrido trascorrere lento delle ore pomeridiane, parlava agitata. L’urgenza di dire ciò che le premeva comportava una gesticolazione per lei inusuale. Protendeva le braccia verso di me e, dopo convulse rotazioni dei polsi, spalancava le dita. Tagliava l’aria con rapidi colpi di un karate virtuale, deglutendo affannata. Anzi, bloccava il diluvio delle frasi sconnesse pur di deglutire rumorosamente.
Io ascoltavo. Cercavo di cogliere un nesso o, almeno, la fonte della smania alla base di quella ansiosa logorrea. Cercavo di non distrarmi perché volevo farlo ancora, seppure l’umidità elevata rendesse la pelle collosa e intaccasse l’energia fisica.
Presi in mano gli eventi quando Sissi si sdraiò.
Mi aveva sempre infastidito il suo naso aquilino sopra le labbra a fessura che richiudevano i denti ostili. I suoi sorrisi, o le sue smorfie, di profilo, acquistavano un non so che di corrosivo. Inoltre, la fioca luce che penetrava dal corridoio non giungeva a illuminare il suo volto da strega. La luce si limitava ad appoggiarsi discreta sulle sue gambe e sul suo ventre. Sfiorava il mio sedere come un archetto può posarsi sulle corde di un violino aspettando la fine dell’assolo di un oboe.
Lei continuava a parlare e a gesticolare convulsa anche sul letto.
Ardeva la camera. La camera funebre, d’altro canto, è detta ardente.
Il finale era prevedibile.
Un finale da zingara contraddittoria.
«Simone, dove vai?».
Ma io ero già fuori. L’asfalto rovente s’aggrappava al ricordo del non fatto. Grondavo di sudore malato. La caligine saliva lenta su di me. Avvertivo i peli delle gambe bagnati, il pube prudere, le ascelle fetide, rivi di sudore scorrere sulla faccia contratta in un’esaltazione nervosa.
Il cerchio era una tenaglia che scardinava le violenti pulsazioni delle arterie occipitali.
Non pensavo a niente quando lo incontrai.
Ecco, non pensavo a niente.
Benché mi desse fastidio quel suo fare lagnoso – un uomo più che trentenne, grande e grosso, e così falso, voglio dire -, accettai la sua richiesta.
E mi limitai a osservarlo perplesso mentre lui mi accusava di non essere riconoscente.