Sulla poesia di Lorenzo Calogero

Fra i tratti che potrebbero dirsi i più riconoscibili della poesia di Lorenzo Calogero (1910 – 1961), c’è il senso austero di un’eclissi destinale dispargente e imperduta: la vita scompare, si sparge invisibile chissà dove e chissà come e però non si perde: forse diventa infinito, forse si commuta e tramuta, forse migra, forse ripulsa dietro o attorno a una qualche lontanissima stella, come una striatura esule nell’ignoto, memore o dimentica dello spazio cosciente che una volta fu.

L’abisso, l’insondabile, è in ogni cellula, e la lingua di Calogero cinge i corpi e le astrazioni, gli atti e le illusioni; cinge e porta con sé tutto quanto degli uomini in ogni istante si consegna “al valico sovrumano” (Campagna): anche gli affanni, anche i decaduti sogni del sentimento, anche i sapori più intimi di ogni arretramento e di ogni segreta onta.

È una poesia di venti e correnti, si muove e poi riappare in una sua eucaristia solenne e fuggevole, come se ogni movimento scaturisse per trovare la misura straziata di un’angoscia e di un dolore soffiati in volute di trasparenza.

Qui più che mai sono il tono, il passo, il battito a determinare lo stile. Uno stile limpido e illividito, levigato e graffiato, sospirante e teso.

Se ne ha una complessione carica di una continua destinazione testamentaria, di una pronuncia affranta dal dominio di continue abrasioni: dunque una complessione che è conseguenza di un continuo e non redimibile accesso a un drammatico orizzonte degli eventi.

Calogero scrive su di una luce spenta, sparita, come sperduta. Scrive nel costante tesissimo spasmo tra la continenza formale e un gradiente d’inquietudine e d’implacato: cioè di quel che non è placato, che non è placabile, e che perdutamente si volge all’implacabile perché dall’implacabile attinge. Dice Aldo Nove nella sua prefazione che “una poesia come quella di Calogero fa paura”: è verissimo.

La parola sofferente di Calogero depone sé stessa in un punto di massima tensione implosiva: quella che possiede non è una forza dirompente e centrifuga, ma collassiale e centripeta: è una parola che dirocca in sé stessa, che plana e annega nello stesso universo senziente da cui promana, che si abbandona a varchi immani. “Forse parlo da solo e con me solo / con la sostanza umana” (5 gennaio 1959).

È una parola stremata e non più tremante, ferma e travolta; un’esperienza di pensiero infuso liricamente e rifuso in una conchiusa frontiera di viatici simbolici: “Tutte le cose si narrano a vicenda” (Per questo egli amò con gloria).

Si potrebbe allora persino tracciare una linea di nesso con un frammento di Anassagora: “Aspetto visibile di cose nascoste sono quelle che appaiono” (trad. Stefano Maso).

Scrive infatti Calogero (Per quale verde ho amato): “Riandando inversamente di cosa in cosa”. Come ad alludere alle cose che si vedono e alle altre che sfuggono, al volto e al rovescio, quindi il verso come vettore di un sentire esistenziale che cerca e continuamente si apre a una trascendenza. “Pure appariva tardivamente / nei giardini entro una foglia / una somma nudità dell’essere / a poco a poco opaca che si fa nostra” (La lievità commosse le cose).

Sono versi – quelli di Calogero – che paiono sempre costituirsi intorno a un coefficiente filosofico fondamentale, sebbene non istituito a sistema, ossia non eletto a discorso, ma sempre battuto e approfondito nel temporaleggiare di un’affilatura speculativa continuamente convocata a esporsi lungo il crinale delle crisi mai eluse.

Come se la parola – la parola della poesia – fosse sempre, e si direbbe anche disperatamente, il seviziato, supplice luogo di un dibattito terribile: sicché è proprio l’intransigenza dell’inevitato a dire, di Calogero, come la sua poesia non abbia descritto altra anamnesi se non quella di un transito tremendo e derelitto.

Ogni orbita interiore, ogni fede, ogni amore, comincia con un cedimento, comincia con la cessione di un territorio intimo: e alle volte un cammino lo si inizia morendo: e questo lo si può dire non soltanto per quanto agli atti circa quella brulla tragica vicenda che fu la biografia di Calogero, ma per il sound che rimbomba come in una guglia d’affanno tra le poesie di Un’orchidea ora splende nella mano.

Il libro:
Lorenzo Calogero
Un’orchidea ora splende nella mano. Poesie scelte 1932-1960
a cura di Nino Cannatà, prefazione di Aldo Nove, traduzione inglese di John Taylor.
Edizioni LYRIKS, 2024.
SIMONE GAMBACORTA (1978), con molte esperienze nel giornalismo e nella cultura. Scrive per L’immaginazione e per il magazine Treccani. Cura una trasmissione tv sui libri.

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