Domenica notte
Sono privo di prospettive palingenetiche. Il futuro è schiacciato sul presente. Il presente non è nient’altro che della spazzatura accumulata da millenni di vomitevoli prepotenze ormonali. Come definirmi se non un putrido groviglio testosteronico, degradato dalle incrostazioni omofobiche di una società più lurida di uno stagno (di cui si rivela il correlativo oggettivo), che si scaglia con ferocia sull’armoniosa razionalità ipotestosteronica? Chiamatemi pure Lorenzo Rossi –con un nome non scelto da me e con un cognome impostomi dal maschilismo dello stagno su citato – tanto la sostanza non cambia, tanto la violenza di genere perpetuata un paio d’ore fa rimarrà uno sfregio indelebile nella mia memoria, in quella di Giulia, in quella della minuscola ma illuminata collettività che include e che, a ragione, condanna senza appello.
Non saprei il punto preciso da cui cominciare la relazione dello stupro. Per coerenza e precisione dovrei partire dal mio concepimento. Per una questione prettamente di sintesi prendo avvio da mezzanotte, e cioè dal ritorno a casa… anzi, no, prendo avvio dalle due circa, allorché già mi trovavo adagiato sul letto che condivido – o, meglio, condividevo – con Giulia.
Poche ore di sonno e una giornata frenetica mi avevano stroncato. Mi aspettava una sveglia cinque ore dopo. Lo studio apre alle nove, ma si trova a Lambrate, non sotto casa. L’unico desiderio egoistico era quello di dormire. E sottolineo “egoistico” perché, al solito, vado accampando giustificazioni non richieste per attenuare il danno della mascolinità tossica, per stornare le responsabilità ingiustificabili su un fantomatico fisico spossato, su una fantasmagorica volontà ottenebrata.
Eppure –. credetemi, non mento – tutto là era per me tenebre, dall’armadio a sei ante bianco traslucido alle sporgenze del letto marrone chiaro – aggiunte per sfigurare gli stinchi –, dalla stampa scarlatta di un acrilico di Frida Khalo – pensierosa sotto al monociglio superbo e sopra alle rossettate labbra ingraziosite dalla peluria sovrastante (stampa posta sulla parete di fronte tra una piccola libreria manipolabile e una minuscolo televisore Ancient Régime) – all’aridità umida di sfatti pensieri caleidoscopici.
Eppure – credetemi, non mento – incartocciato nel pigiama che riportava il sorriso di Wonder Woman, mi stavo ripiegando sotto le coperte quando Giulia mi gettò, con la risolutezza di una donna emancipata, gli slip neri sul viso.
«Amùr, sò stanch, sò già quasi a durmì» bofonchiai deviando verso la confidenza dialettale della metropoli lasciva per un vieto scopo utilitaristico.
«A dopo la fluidità… Non è questo il momento» protestò Giulia spiattellando un italiano dalla dizione telegiornalistica.
Un balzo ed eccola a cavalcioni sul mio petto. Ma non rimase statica. Avanzò inesorabilmente finché il mio naso si ritrovò compresso nella…
Sebbene sfinito e stordito, proseguii quello che consideravo un dovere. Un dovere fin troppo piacevole, sia chiaro! Un dovere-piacere il quale continuò mediante delle ancate ritmiche che si adeguarono al metronomico battito delle lancette del chiassoso orologio a muro Leroy Merlin appeso nel bagno attiguo.
Ero quasi al dunque – nonostante la concentrazione dispersa nei dettagli tenebrosi e la risolutezza da pilota automatico – quando Giulia gemette e intimò: «Adesso basta!».
Forse non la compresi, forse ero ingarbugliato nell’accozzaglia di sensazioni deleterie, forse mi identificavo in canzonette anni Sessanta in cui l’orgasmo era rinchiuso nella stanza di un godimento prezzolato, forse me ne infischiai per via della prepotenza ottusa del maschio che pretende di concludere qualsivoglia impresa anche a discapito del volere altrui, fatto sta che io non mi bloccai. Anzi mossi il bacino per altri cinque secondi.
Giulia lasciò impressa un’unghiata di legittima stizza su un mio zigomo e gridò: «Se ho detto no, è no».
Eccomi qua, da quasi due ore disteso sullo stretto sedile reclinabile (seppia dai bordi amaranto) della Kia regalatami dai miei per il compleanno dei trent’anni. Non credo riuscirò a dormire. Non solo per la scomodità oggettiva ma soprattutto per il rimorso. Ormai ho compreso che sono spacciato come tutti gli altri caucasians cisgender che si ritengono eterosessuali e che sono intossicati dalla mascolinità imposta dal patriarcato istintivamente gradito. E ho compreso che non mi rimane che un solo tentativo per emanciparmi – almeno in parte – dalla mia spregevole situazione. Vi prometto che lo metterò in pratica tra non molto, subito dopo il lavoro. Per il momento mi limito a invocare la cancellazione della domenica.