Il misterioso e angosciante buio di Antonio Moresco. Una recensione non breve

Antonio Moresco, Canto del buio e della luce, Feltrinelli, Milano, 2024

Non è semplice scrivere una recensione a un libro non normale (si, lo so, è un aggettivo che non significa niente) come Canto del buio e della luce, perché non è semplice cercare di mettere in ordine, per renderle in maniera decentemente chiara a chi la legge, le sensazioni complesse e contraddittorie che l’ultimo libro di Antonio Moresco ha suscitato in me. Non è semplice e per questo neanche breve. Non ho avuto occasione di conoscere personalmente Moresco e di avere quindi un’idea di prima mano della sua personalità, della sua psicologia e del suo modo di intendere il suo lavoro di scrittore. Elemento di per sé insignificante: non è necessario aver chiacchierato con Faulkner o con Fenoglio o con Di Pietrantonio per scrivere qualcosa su di loro. Però, se è lecito cominciare un articolo su un libro con delle valutazioni di sintesi complessiva, usualmente destinate alle righe conclusive, l’impressione forse più forte che Il Canto del buio e della luce mi ha lasciato è quella del vistoso ego dell’autore. Il libro, che pure è di una fenomenale pirotecnia di fantasia e di creatività, mi è parso costruito sulla proclamazione di tutto quello che l’autore pensa si debba pensare sull’esistere, sulla storia, sull’universo. Da questo punto di vista mi è venuto da accostare Moresco, pur nella distanza più che siderale che separa i due scrittori, a Thomas Mann e alla sua ambizione di rappresentare, attraverso la letteratura creativa in quanto genere in grado di superare gli steccati e gli obblighi delle varie discipline della conoscenza umana, un punto fermo di ricapitolazione, una sintesi alta (e aggiungo, assumendomene la responsabilità, divulgativa) della cultura germanica e quindi per lui occidentale, se non universale.

Moresco, nel cercare di rendere in maniera concreta, realistica, l’orrore perpetrato dall’uomo sull’uomo e farlo sentire l’elemento dominante, addirittura fondante dell’esistenza e della storia umana, disserta su tutto, anche utilizzando l’ingegnoso sistema di inserire domande agli specialisti per avere lumi sugli argomenti che intende toccare. Disserta sulla politica, sull’intelligenza artificiale, sul prima e dopo il Big Bang, sulla fisica delle particelle, sull’energia di Planck, sui buchi neri e bianchi, sulla musica, sulla Cina, su Putin, sull’Islam, sulle violenze pubbliche e private, sulle guerre, sulle migrazioni, sui femminicidi, sulla crudeltà, sui buoni, su Cristo, sulla religione, sulla Chiesa, sulla teologia, la filosofia, su tante e tante altre cose. E, last but not least, sulla letteratura, facendo sull’argomento affermazioni per quanto mi riguarda condivisibili quasi al cento per cento, ma presentando tra le righe sé stesso come una sorta di gigantesco testimone-martire squarciante il velo del potere e del dolore umano. In lunghe pagine di analisi della cultura e della scrittura dei nostri tempi siamo a un certo punto a poca distanza da una sorta di delirio di sé come scrittore contro, come vate contemporaneo della denuncia straziata e straziante.

La sua storia, del resto, è in qualche modo tipica: quella di un autore diverso, letterariamente scontroso, alternativo, arrabbiato, denunciante sempre e comunque, a lungo ai margini dei meccanismi del triste mercato letterario italiano e poi lentamente diventato un totem indiscutibile, santificato dai problemi con gli editori e dall’emarginazione; un autore di quelli “amati più all’estero che in Italia”, che è ormai corretto considerare il più grande scrittore italiano vivente e di cui ogni opera è da trattare con reverenza. Non sto emettendo alcun giudizio moraleggiante (ci mancherebbe!), sto solo dicendo che l’atteggiamento messianico, cupo, ovviamente fustigante e disperatamente pessimista, di Moresco determina anche alcuni esisti letterari, rendendo il romanzo a tratti manierista e, ma si tratta solo di una mia personalissima sensazione, a tratti artificioso.

Seconda forte impressione: l’ossessività. Questo ultimo Canto moreschiano è, più ancora dei precedenti, ossessivamente ripetitivo e non si tratta di qualche cosa di non voluto, di stilisticamente sfuggito di mano all’autore, ma di una scelta perfettamente consapevole e volutamente maniacale. Sono quasi senza soluzione di continuità i punti interrogativi disseminati nel romanzo, a cominciare dall’ “E io chi sono?” auto-domandato un numero infinito di volte da tutta l’infinita serie di personaggi che appaiono nel libro. Domande nelle quali i termini buio e luce ritornano a occhio per centinaia (migliaia?) di volte, quasi sempre giocate su alternative paradossali di un cervellotico marinismo linguistico e dal senso spesso incomprensibile, senso che probabilmente non vogliono avere. Domande che nella maggior parte dei casi non suggeriscono nulla di abissale, come invece suppongo abbiano intenzione di suggerire, ancor meno di emozionante. Mi sembra vogliano costituire, e qui ricado ancora in un indimostrabile psicologismo, pezzi di bravura di un’ossessività esibitoria, ostentatamente al di fuori dagli schemi della mediocre narrativa contemporanea ma quando sono, e lo sono spesso, troppo insistite e bizantine, il lettore sente inevitabilmente calare la tensione.

Una sola citazione: “È tutto il buio a essersi messo improvvisamente controluce? Ma la luce adesso dov’è? È così forte da farci vedere solo il buio? È il buio a essersi messo controluce o è la luce a essersi messa controbuio?”

Terza impressione: le prime due impressioni, unite a svariati altri caratteri del libro che tralascio per non trasformare una recensione in un trattatello, fanno percepire il Canto come un romanzo sicuramente visionario ma irrisolto, non del tutto riuscito. Nella sua ambizione di essere grande, profondissimo, diverso, enciclopedico, eterodosso, e nel suo essere volutamente ossessivo e in parte (lo ripeto: modestissima sensazione personale) artificioso, è un romanzo che può risultare a tratti anche irritante.

Non sconfesso nulla di quanto ho scritto nelle righe precedenti se aggiungo: nel panorama malinconico della narrativa italiana del XXI secolo (ma questo è un altro discorso, si tratta di un panorama malinconico che non va affatto demonizzato), ad avercene di testi irrisolti, artificiosi (sembrerebbe) e irritanti come questo!

Le successive impressioni, quarta, quinta etc., partono infatti dall’originalità e dalla grandiosa forza dell’idea: il mondo che diventa incomprensibilmente e completamente buio. Il lettore si sente sempre più soffocare. Proseguono con i pezzi di grande scrittura ampiamente sparsi nel testo irrisolto: gli incendi appiccati alle cose e alle case dall’umanità disperata e nichilista pur di poter vivere gli ultimi sprazzi di luce. I vestiti di Armani scesi dai manichini in processione nel buio. Il musical messo in piedi dal condannato alla sedia elettrica John John con pinguini, altri uccelli, mosche, esseri umani e altri soggetti; nessuno ovviamente vede gli altri partecipanti né alcunché del mondo intorno. Le lezioni di danza classica impartite da Tania alle sue allieve bambine nel buio totale: si tratta di momenti mirabili. Il piccolo modellino di ciclista di acciaio che prende vita, lascia il davanzale dove era stato appoggiato dal proprietario, esce dalla casa, pedala vorticosamente per la città e le ragazze gli chiedono di farle salire in canna. Il volo transoceanico e senza meta nell’oscurità più totale dell’immenso stormo di uccelli, a cui si uniscono altri uccelli, insetti, droni. Gli umani che non vogliono essere redenti, non vogliono assolutamente risorgere, non vogliono in alcun modo essere costretti a ritornare a vivere, anche in altre forme, anche dopo aver raggiunto la salvezza.

Proseguono ancora con il lancinante dolore dell’autore, questo sì tanto terribile quanto sincero, per la tragedia insensata della cattiveria umana, con i raccapriccianti elenchi delle allucinanti e inenarrabili brutalità che esseri umani infliggono ad altri esseri umani (“Perché tutto questo dolore? Questo orrore? Quanta disperazione!”). E proseguono poi con la forza espressiva di quella che sembra essere la tesi centrale del libro, sparsa a piene mani in tutte le centinaia di pagine: il mondo come macchina del dolore in sé, anche prima del buio che in realtà non ha peggiorato in alcun modo i comportamenti umani; il mondo macchina del dolore anche quando c’era la luce, macchina del dolore da sempre. Il buio non fa altro che perpetuare la cattiveria umana. Si potrebbe pensare a un altro Canto, sublime come poche altre pagine della letteratura mondiale, al leopardiano pastore errante nell’Asia: è funesto a chi nasce il dì natale.

Il Canto racconta di come il mondo a un certo punto, e per un motivo ignoto, diventi progressivamente buio, buio fino al buio totale, talmente profondo da diventare quasi solido. Tutte le attività umane diventano problematiche; molte, alla fine, impossibili. Moresco fa intervenire una lunghissima schiera di personaggi che angosciosamente, e suscitando anche in noi una crescente angoscia, ci comunicano la loro stupefatta disperazione per questo inaudito e misterioso buio e come questo buio abbia sconvolto il loro lavoro, la loro vita così come quella di tutti. E qui Moresco si abbandona alla sua volontà totalizzante-enciclopedica, non tralasciando nulla o quasi delle attività e dello scibile umani.

Intervengono a raccontarsi infatti Putin, una bancaria, un regista teatrale e il suo tecnico delle luci, uno storno di uccelli, un impiegato di un supermercato, una ballerina classica e le sue allieve, l’educatrice di una bambina autistica, un’infermiera di notte, un condannato a morte, un ipnotista di professione (“Che io non sia in grado di distinguere ciò che sta succedendo da ciò che pensiamo stia succedendo?”), una personal shopper, assassini e violentatori, un prete buono che ha a che fare con un vescovo laido, un tecnico dell’intelligenza artificiale, una coppia di innamorati erranti dall’attività affettiva ed erotica senza sosta, uno storico, un politico, un inventore, uno scrittore, un pubblicitario, un orafo che fonde e lavora l’oro, un giocatore di calcio, un pugile, una coppia di attori porno, i fisici, gli astronomi, i musicisti, gli artisti etc. intervistati da Moresco, uno stragista di bambini in una scuola del Texas, un fabbricante di fuochi d’artificio, un filosofo, dei pinguini parlanti, Jeff Bezos, un teologo, un aspirante femminicida, mamma Martina assassina della figlia, Papa Francesco cristiano buono che scappa dalla Chiesa cloaca, migranti, un telescopio spaziale, un botanico, una ragazzina violentata che partorisce (si potrà ritenere si tratti della Madonna), una sarta che realizza vestiti per le feste alla medievale in Italia, un formichiere di silicio creato dall’IA, un allenatore di pugilato, un mago delle bolle di sapone, un alpinista, operai che lavorano sulle guglie del Duomo di Milano, un bambino che scappa dalla sua casa dove il padre massacra di botte la mamma, Gita che faceva teatro con le ombre e poi ne diventa regina, Gesù. E poi la voce, la voce ignota che a un certo punto si mette a cantare senza poter smettere e verso la quale si incamminano anelanti, ritrovandosi tutti insieme, questi personaggi, queste figure, questi animali.

Questo elenco aiuta a farsi una idea della tragica, surreale, grottesca, dolorosa vicenda di questo Canto del buio e della luce più di ogni tentativo di raccontarla o di cercare di interpretarne le intenzioni e i simbolismi. Tutti, pur nel buio più assoluto, continuano a muoversi, a sperare e a disperarsi, a fare cose, a incamminarsi. La vita del mondo è sconvolta, privata dell’elemento che le ha permesso di essere, la luce. Eppure questa vita, tenacemente e incredibilmente, continua, perplessa, tristissima, ma, ancora una volta questo il pensiero centrale di Moresco, non peggiore, non più infelice, non più cattiva di prima, di quando c’era la luce. L’abominio c’era anche prima. Forse è Dio, dice a un certo punto qualcuno, ad aver mandato le tenebre, ma nelle tenebre eravamo immersi anche prima. Anche il regno di prima era del demonio. Nel buio continua tutto come prima, tutto il male c’era già. Le guerre continuano anche al buio, come le violenze, le torture, le sopraffazioni, il male in tutte le sue forme. Chi lo sa perché, si chiede il Canto, questa macchina di dolore nella luce che è la vita sarà diventata una macchina del dolore nel buio?

Al cospetto di questo interrogativo Moresco non sa e non può rispondere. Il mondo è condannato senza appello. Si, esistono i buoni, i deboli e gli innocenti. Ma questo rende la condanna senza appello ancora più dura.

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