Le disavventure di Pat Hobby

Fitzgerald, signori, ma un Fitzgerald diverso dal Fitzgerald immenso dell’immenso Gatsby. Siamo a Hollywood, Pat Hobby ha 49 anni ed è uno sceneggiatore in magra che ha lavorato bene finché il cinema è stato muto, ma l’arrivo del sonoro lo ha messo fuori partita. Il sonoro è la lingua nuova di una modernità che ha deciso di alzare la voce e che lo ha ammutolito, gli ha tolto la parola. L’industria hollywodiana gli ha voltato le spalle. Da quando il suo mondo (il mondo del cinema muto) è andato via, Pat Hobby si accorge sempre meglio di quanto possa essere facile essere messi da parte ogni giorno di più.

In una delle pagine iniziali de Le disavventure di Pat Hobby (Mondadori, traduzione di Marco Rossari, pp. 173), Fitzgerald lo presenta così: “Pat aveva 49 anni. Faceva lo sceneggiatore, sebbene di sceneggiature ne avesse scritte pochine, anzi nemmeno aveva letto tutti i soggetti originali su cui aveva lavorato, perché leggere troppo gli faceva venire un gran mal di testa. Ai bei vecchi tempi del muto prendevi un canovaccio buttato giù da qualcun altro, recuperavi una segretaria sveglia e in poche ore, a botte di benzedrina, gli davi una struttura decente”. Dunque non un genio, né un talento notevole, ma un addetto ai lavori capace (finché è durata) di far fruttare un mestieraccio praticato senza illusioni e con molto cinismo. Chissà cosa ne avrebbe detto Flaiano.

Pat Hobby è un uomo rimasto solo e quello che quest’uomo solo fa non è altro che tentare di uscire dalla sua solitudine: in fondo è anche quello che succede a Gatsby, solo che a Pat Hobby succede in chiave comica, sebbene il suo sia un comico amaro, per quanto confezionato da Fitzgerald nella pasta soffice di racconti che si lasciano mangiare a grandi bocconi. Sta di fatto che il solo film che Pat Hobby scrive è il film invisibile della sua vita. È il protagonista di un insieme di storie da ridere, un antieroe sfortunato e cialtrone alle prese con una sequela di gag dalle quali esce inevitabilmente perdente e frustrato: frustrato specialmente nei suoi reiterati, patetici tentativi di furberia, che falliscono ogni qual volta cerchi una scorciatoia.

Quello che però questo libro così apparentemente ilare dice è anche qualcosa di più cupo: tra le molte cose che nella vita possono cambiare, e che anzi possono finire (svanire, scomparire) da un momento all’altro, due sono particolarmente volatili: ossia i soldi e il talento. L’ironia sta nel fatto che gli uni e l’altro, quando se ne sia nel pieno possesso, si tende a reputarli durevoli e certi. Un po’ come l’amore.

Un elemento di attualità delle Disavventure sta nel fatto che tutto quanto vi è narrato si impernia sulle conseguenze occupazionali di una innovazione tecnologica (il passaggio dal cinema muto al sonoro). Ma al di là dei possibili risvolti nell’oggi, quello che si può aggiungere è che forse è proprio in un libro come questo, tutto sommato minore e secondario, e apparentemente disimpegnato e di mestiere, che la raffinatezza di Fitzgerald trova un altro modo per brillare di luce propria. Lo trova – tanto per cominciare – nella capacità di trasformare un dramma in un cartone animato, e nella capacità di costruire quel cartone animato come una girandola con al centro un protagonista scorretto e travolto dai suoi stessi affanni: quindi un protagonista umanissimo.

Dei racconti colpisce anche, e sta in questo un chiaro merito del traduttore, Marco Rossari, la freschezza della prosa e il passo snodato della narrazione, sempre molto snella, sempre molto leggera: è tutto un farsi di episodi, di situazioni, uno sciame di momenti che trova un’unitarietà nel modo di arrancare di Pat Hobby, nel suo infinito e fallace balletto tra le difficoltà.

Questo personaggio, che poi, in quanto loser, è “l’espressione dell’altro lato di Hollywood”, questo individuo così buffo e così ostinato, sarebbe, a venircisi a trovare vis-à-vis, a imbattercisi in strada o al bar (dove non sarebbe sorprendente incontrarlo), quello che si dice un soggetto curioso, un tizio che incuriosisce; di quegli uomini – per intenderci – che si capiscono subito e che però non si capiscono mai. Questa cosa gliela dice persino una pittrice a cui un giorno, per caso, Pat Hobby si ritrova a fare da improbabile modello: “Lei è difficile da ritrarre, lo sa?”. Sicché, dinanzi a questa domanda così netta, quel cartone animato di Pat Hobby si rivela improvvisamente meno scontato di quanto lo si reputasse. Forse perché ogni everyman è assai meno classificabile, meno ritraibile, meno definibile di ogni eroe, di ogni campione: e lo è proprio per il prevalere, sui forti, sui marcati, dei profili deboli. Viceversa, chi è vincente dà pressoché sempre l’impressione di poter essere descritto con un certo agio: ma anche quella è una presunzione fallace, è un’illusione sineddotica.

Scende però un grappolo di altre domande, dalle Disavventure: perché Pat Hobby non demorde? Perché insiste a frequentare gli studios, nonostante non gliene vada bene una? Perché si intestardisce a spasimare in quell’ambiente che di fatto lo ha estromesso? Perché si ingegna per elemosinare l’attenzione dei produttori nella speranza di riuscire a sbarcare il lunario? Perché, insomma, Pat Hobby insiste a trascinarsi nella sua strana, esasperata, parossistica Via Crucis?

La prima risposta è che la cosa non dipende da lui, ma ha a che vedere con questioni strettamente diegetiche, cioè Pat Hobby non potrebbe che esistere nella dimensione narratologica che, grazie alla penna di Fitzgerald, lo vede funzionare come espediente e come pretesto di gag e per l’appunto di disavventure (dunque come un vettore di comicità). E questa sarebbe un’ipotesi, come dire, al di là di lui e di ogni sua immaginabile volontà, di ogni sua cosciente determinazione. Se invece si entra più dentro il personaggio, se cioè ci si addentra nell’alveo delle sue possibili responsabilità, e se ci si prova a figurarselo in carne e ossa, la risposta potrebbe essere un’altra.
Pat Hobby non rinuncia perché ha paura di uscire dal suo mondo: la paura di abbandonare quel mondo, che pure lo maltratta e che gli è ogni giorno più estraneo, soverchia ogni altra.

Ma potrebbe darsi anche un’altra ipotesi. Non si arrende perché non accetta la cesura tra i bei “vecchi tempi” del successo e i tempi nuovi che si ritrova crudamente a vivere: cioè non riesce a metabolizzare il fatale fuso orario che lo ha scaraventato alla periferia dei tempi moderni.

Il problema sta nella sua debolezza intellettiva. Pat Hobby è un uomo carente degli strumenti critici e autocritici necessari per comprendere di essere inetto rispetto a quello che sta cercando di fare: da un lato è stremato dalle sue paure, dall’altro non è sufficientemente intelligente per comprendere la portata della sua nuova condizione di vita. Fitzgerald rende Pat Hobby simpatico e al tempo stesso stupido.

La verità, la triste verità, è che questo personaggio, a cui pure così facilmente ci si affeziona, è uno sciocco. Fitzgerald tutto questo lo lascia dedurre, lo lascia intuire a chi segua le peripezie di questa sua creatura dalla psicologia così assente, dall’agire così sbalestrato e al tempo stesso elementare: il discorso possibile sulla stupidità di Pat Hobby resta infatti muto come il cinema dei suoi anni migliori.

Si potrebbe però aggiungere un altro piano di lettura, un piano che si sgancia da ogni altro discorso sin qui fatto e che scombina le carte. Per avallarlo nella sua eventuale plausibilità (proponibilità), tocca spostare ulteriormente il punto di vista su quello che può essere stato (che potrebbe essere stato) l’asse di lavoro di Fitzgerald: e si dovrebbe presumere, tra i moventi della sua scrittura (cioè della scrittura delle storie di Pat Hobby), un’intenzione più perfida e beffarda, e lievemente arretrata, quanto alla sua immediata visibilità, rispetto alla veste di primo risalto delle Disavventure. Cioè l’intenzione della parodia. Pat Hobby sarebbe (potrebbe essere: potrebbe essere visto come) una parodia; la parodia di un perdente, la caricatura di un uomo fuoritempo massimo. E l’osservazione che più o meno tutto, nelle delle sue faccende in perpetuo testacoda, abbia un epilogo e non effettivamente una fine, parrebbe (poter) essere (adotta come) un elemento a sostegno di questa tesi.

Come a voler dire che, in fondo, laddove un’amarezza non revocabile non trovi realmente modo d’accamparsi, laddove la disillusione e il dispetto non sfocino nella rivolta, nella ribellione, o in una scelta di contestazione che sia innescata dal montare del dolore e dall’ammontare delle crisi e dei fallimenti, la parodia ha gioco facile: facile al punto da risultare inevitabile e addirittura non avvertibile, tanto più se, come in Pat Hobby, è camuffata con i sapori e i livori buffoneschi di una vita incapace addirittura di fallire definitivamente.

Per Pat Hobby il presente si riduce all’amministrazione straordinaria di una quotidianità tutta scassata, con la cambiale aggiuntiva che lui questo presente lo vede male. Lo vede male perché lo guarda con un solo occhio. L’altro lo tiene rivolto a quel passato in cui le cose avevano una loro dolcezza e un loro sorriso, e che lui, inevitabilmente, e addirittura inconsapevolmente, ha mitizzato: perché quella stagione è talmente diversa da quella in cui ne facciamo la conoscenza e lo vediamo continuamente scuffiare, che la sua memoria non può fare altro che trattenerla come un’età beata; un’età nella quale lui sente ancora sopravvivere, sente ancora resistere, quella sua superstite consistenza di uomo che forse lo rinfranca, che forse lo riscatta dinanzi al sé stesso che si è ritrovato a essere. Quello che forse Pat Hobby non si dice, è che il sé stesso che s’è ritrovato a essere, s’è ritrovato a esserlo proprio per la sua incapacità di uscire da quel che è.

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