Leone Papò 2

Una precisazione

Non posso fare a meno d’interrompere la narrazione del breve ma intenso lasso di tempo nel quale io fui in coppia con Sonia. Mi aiuta averlo diviso in due periodi. Una digressione è ammissibile se non necessaria. Altrimenti corro il rischio di risultare più disturbato di quanto lo fosse lei.
Perché?

Lo dichiaro così, ex abrupto, affinché sia chiaro una volta per tutte: Io non sono un masochista e nemmeno un sadico. Dal punto di vista fisico e mentale sono piuttosto scontato. Non mi piace strapazzare gli altri e nemmeno essere strapazzato.
E allora per quale motivo permisi a Sonia di tiranneggiarmi in quel modo, varcando ogni limite di rispetto verso la mia dignità?
Impossibile rispondere in maniera razionale.
Esistono delle situazioni che sfuggono ad ogni logica deterministica.
Ma si vive in un mondo neopositivista. Non c’è dubbio.
Ed è questa una delle radici delle arboree incomprensioni attuali.

Mi spiego meglio esemplificando.
Spesso i giornalisti invitano le mogli ad abbandonare i mariti violenti, possibili uxoricidi, e a pretendere il divorzio. Al loro rifiuto, commentano che le infelici vivono nell’illusione che i coniugi prima o poi la smetteranno di picchiarle, che diventeranno più civili.
Queste spiegazioni generalizzanti, queste conclusioni da chiaroveggenti d’accatto, miei cari, sono delle stupidaggini rivoltanti.
Insisto, non si può razionalizzare ciò che razionale non è.
L’innamoramento è forse razionale?

Ebbene, io, come tutti coloro che si trovano in completa balia del partner, non mi rendevo conto di vivere male. Piano piano le violenze di Sonia si erano trasformate in quotidianità, erano valutate parte integrante di un tran-tran normalissimo.
Vivevo in un mondo parallelo in cui camminare a testa bassa era scontato, beccarmi ogni tanto uno schiaffo senza motivo rientrava nella natura della relazione, essere rimproverato in pubblico per un silenzio scambiato per un pensiero fedifrago non era strano, svegliarsi e sentire immediatamente una brusca domanda su cosa avessi sognato era più che legittimo.

Quello che sfugge a chi non coglie perché si acconsentano tutte queste umiliazioni senza reagire è spiegabile in poche parole: si diventa dipendenti dal terrore, complici dell’aguzzino.
Non viene nessuna voglia di riflettere, non si perde né interesse né stima verso il partner-carnefice.
L’amore aumenta d’intensità. La sottomissione diventa una necessità.
Si cerca ogni tanto di comprendere il motivo dell’accanimento dell’altro, sapendo di avere una coscienza pulitissima. Ma lo si fa solo di sfuggita, dato che si è convinti che la gelosia ossessiva sia una conseguenza scontata di un amore immenso, di sicuro superiore al proprio.
Ci si sente perfino in colpa. Quasi ci si vergogna di non sapere amare con un’analoga intensità tormentata. Si è perfino pronti al martirio pur di dimostrare la solidità del sentimento provato.
Rinchiusi, come si è, in un carcere pieno di macchine di tortura (che si ritiene meritato), non si possiede nessun desiderio di evadere, dato che la mortificazione si rivela ormai una ragione essenziale per vivere.
Si comprende di provare paura, si guarda in continuazione il proprio vessatore in tralice e con timore. Tuttavia si è pronti a tutto pur di non interrompere la tensione ininterrotta.
Che senso avrebbe abbandonare una routine straziante ma ormai divenuta un tutt’uno con l’esistenza?
Come riprendere la vita precedente dopo uno stravolgimento totale?
E, soprattutto, come accettare di perdere chi ama così tanto che, divorato dalla gelosia, invece di digiunare mastica con avidità?
È impossibile, ve lo assicuro.
Quando finisce una crudele liaison totalizzante, si scorge davanti a sé solo il suicidio.
Se si riesce a superare l’esigenza di morire, ci si percepisce come un moribondo in buona salute consapevole di non avere davanti a sé un futuro reale, ma solo una morte interiore scambiata dagli altri per vita.
Soltanto con il tempo si arriva a comprendere l’asfissia di un nodo esistenziale che rende simili a un impiccato che non riesce a crepare. Ma la comprensione non strappa il dolore ormai inestirpabile per la fine della persecuzione.
Forse si rimpiangono le sensazioni gridate? Forse l’eccesso è pur sempre migliore dell’ovvietà?
Lo ripeto, non esiste una risposta logica.

Io sono solamente in grado di circoscrivere e commentare la mia esperienza tramite le lacerazioni che sono rimaste dentro di me, tramite la confessione del malessere che tuttora sento, e che so che sentirò sempre.
Altro dirvi non vo’.
Mi accusano spesso di essere troppo cerebrale.
I detrattori non scrutano l’espressione dolente che si cela dietro alla maschera.
Io non sono un uomo freddo, sono un attore.
Recito per convenienza.
Sono troppo borghese per mostrare la mia sconclusionata identità in fieri.

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