Leone Papò 3

Il secondo periodo della grottesca storia d’amore con Sonia cominciò verso metà settembre 2003 e terminò il 10 maggio 2004.

Scappati dal pub di via della Maddalena, Luca ed io ci spostammo in una discoteca minuscola, nel rione Monti, dove, a detta sua, non era difficile rimorchiare. Si trattava di un’ex cantina divisa in quattro zone, un ingresso-bar, una stanza con delle tavole quadrate stile high-tech per sorseggiare i drink, uno stanzone disadorno, con delle panche addossate alle pareti, che fungeva da ingresso alla pista da ballo.
Tra l’euforia fasulla del sabato sera e gli sguardi infoiati dei giovani uomini rivolti alle giovani donne eccitate, Luca ed io ci accomodammo presso a una delle tavole quadrate stile high-tech, con in mano un bicchiere di chinotto, per guardarci intorno poco convinti e per discutere sull’incontro con Sonia. Io gli confessai di essere certo di avere trovato poco attraente, se non fastidiosa, quella ragazza che urlava al pub. Aggiunsi di sentirmi guarito. Lui mi ascoltò annoiato, fingendo partecipazione.
Uscimmo dalla discoteca alle quattro e andammo a piedi fino a Termini. Avevamo fame e sapevamo, dopo alcune nottate di bagordi, che a quell’ora apriva il Moka cafè, un bar enorme dalla doppia entrata, una interna alla stazione, l’altra da via Giolitti.
Accesi il cellulare dopo essermi seduto con Luca presso a un tavolino sul quale avevamo appoggiato i cappuccini e i cornetti. Cominciò a scattare più volte la breve suoneria da me creata per gli sms. Sonia mi aveva inviato una serie di messaggi deliranti. Piuttosto che rimettersi con me, si sarebbe buttata dal balcone; perfino Valentina, l’amica lesbica che era con lei nel pub, aveva affermato che quella sera io ero così sexy da averla eccitata, chiara prova della mia inaffidabilità; del resto, io, dopo la fuga, ero andato sicuramente a scopare con qualcuna; meritavo di essere castrato.
Mi sentii felice come non mai. Le scrissi di amarla e di percepire di essere amato. Ero convinto che ormai dormisse, visto che aveva inviato l’ultimo messaggio due ore prima. Invece Sonia rispose immediatamente con una dichiarazione di odio. Io replicai di non credere alle sue parole. Lei scrisse che m’illudevo. Io la incalzai. Lei si mostrò meno risoluta.
Dopo circa mezz’ora, Luca mi consigliò di spegnere la suoneria: in molti, assonnati, mi rivolgevano delle occhiate infastidite.
La sera successiva Sonia ed io la trascorremmo baciandoci con furore addossati sul muro dell’edificio adiacente al pub in cui c’eravamo conosciuti. Una sua amica commentò divertita: «E mo’ chi li stacca!». La mattina seguente io ero al liceo scientifico, tra l’ostilità dei nuovi colleghi che dubitavano io fossi stato davvero male, che sospettavano avessi fatto il furbo.
Il pomeriggio Sonia si trasferì da me.
Eravamo entusiasti. Ci infilammo di nuovo la fedina d’argento all’anulare, e ci scatenammo a letto come eravamo soliti fare, davanti alla minuscola Nemesi che ostentava perplessità.
Ma ben presto la situazione degenerò.
Io ripresi a camminare a testa bassa, ad accettare i suoi insulti, a giustificarmi senza avere commesso nulla di male.
Ogni giovedì Sonia dormiva dalla madre. Per lei era un tormento. Mi chiamava più volte, anche dopo mezzanotte, per controllare se io fossi in compagnia. Affermava con voce alterata: «Domani, appena ci vediamo, ti masturbo, così controllo quanto vieni. Se vieni poco, significa che mi hai tradito». Fortunatamente non ha mai messo in atto quella minaccia.
Ma le vennero dei dubbi sull’autenticità dell’attrazione fisica che provavo per lei. Nonostante i tours de force sessuali a cui mi sottoponeva, io non facevo mai cilecca. Lei dava una lettura tutta sua al fatto: ero professionale come un escort. Non era lei, in quanto Sonia, ad attrarmi, ma era lei in quanto donna. Al posto suo ci sarebbe potuta essere chiunque altra. Sicché anche i suoi sforzi di sfinirmi a letto si rivelavano inutili. Appena partiva per Guidonia, io di certo la tradivo con qualche ninfomane, magari brasiliana.
Decise di dormire tutte le notti da me.
Io ero ormai completamente nelle sue mani. Mi accorgevo che la sua psicosi peggiorava. Capivo di vivere come se fossi stato un innocente punito senza motivo. Ma mi sentivo lusingato dall’ossessione che rotava intorno alla mia persona. Consideravo un abbaglio della ragione ritenermi un’anima dannata, in realtà ero l’opposto, ero un’anima beata. E invece di pensare a me, pensavo a tranquillizzarla, a ubbidire ai suoi ordini, a protestare il meno possibile.
Le permisi di leggere prima di me i messaggi che arrivavano al cellulare. Lo stesso feci per le e-mail. Al telefono di casa parlavo in viva voce, perfino con mia madre. A un certo punto mi proibì di uscire con qualsiasi amico perché, una sera, mentre ne vidi alcuni per progettare una rivista letteraria che non ebbe mai vita, io le feci soltanto uno squillo.
La mia arrendevolezza non fu sufficiente.
Dopo essersi quasi rassicurata sulla mia fedeltà, dato che ormai io ero costantemente con lei, se si escludeva quando ero a lavoro, Sonia si rese conto di non essere la prima donna della mia vita. Allora cominciarono le crisi di gelosia retroattiva: «Tu hai amato più Lavinia, ti manca la sua patata… Con Monica eri più romantico… Se ti rivedessi con Micaela, ti rimetteresti con lei e mi getteresti in un cassonetto come fossi un calzino bucato…».
Il problema principale era che questi deliri si presentavano più volte al giorno e aumentavano d’intensità con il passare del tempo. Eravamo entrambi esausti. Nemesi ci scrutava interdetta, forse mortificata. Ma era così che doveva andare. Io ne ero sicuro. E lo era anche lei.
Il dramma risolutivo fu causato dal compleanno di Simona, la sorella maggiore che viveva a Londra. Poiché Simona desiderava festeggiare con Sonia, le inviò i biglietti aereo in regalo. Ma Sonia le rispose di no, s’inventò di avere un esame che non le permetteva di partire.
«Mica posso lasciarti solo, sai le corna che mi faresti!», esclamò rabbiosa, incolpandomi di averla spinta a mentire e di averle impedito il viaggio.

Sonia ebbe, dopo tanto obnubilamento, un’illuminazione. Capì di stare per impazzire completamente. Capì di non avere altra scelta: doveva affrancarsi da me. Altrimenti sarebbe finita in una clinica psichiatrica per sempre come Antonietta Portulano, la moglie di Pirandello.
E così il 29 aprile dormì dalla madre. La mattina dopo mi chiamò (io ero in macchina con papà, di ritorno dal liceo classico). Prima mi disse di non amarmi più. Dopo aggiustò il tiro dichiarando di avere compreso di non avermi mai amato sul serio. Ma che stavolta non mi avrebbe lasciato, per paura che io ritornassi in stato epilettico.
Seguirono dieci giorni in cui derise la mia disperazione, in cui si dimostrò insofferente, in cui mi trattò con sdegno, quasi con disgusto, in cui ritrattò tutte le parole pronunciate sul nostro passato e sul nostro futuro.
Nel racconto prima citato, Non te ne accorgi neanche, spiego il punto di vista portato avanti da lei quando, in quei giorni, le ricordavo le sue reiterate dichiarazione di amore, di un amore indissolubile (Maria sono sempre io)

Maria […] è una persona incapace di non soffrire. O almeno di non costruirsi un teatrino del dolore. I finalmente sono momentanei, non eterni. La convinzione è dell’attimo. Fingere di non capirlo significa sparare consapevolmente cazzate. Maria spara ancora cazzate. Quello che più mi secca del suo comportamento è che ha cercato di distruggere la mia stabilità studiata. E, nella sua cattiveria subdola, mi ha fatto sentire penosamente in colpa.

Il 9 maggio, inquieto come un malato oncologico, approfittando del fatto che lei trascorresse la notte a Guidonia, incontrai T., persuaso che mi avrebbe fatto bene.
Il 10 maggio, dopo un pomeriggio durante il quale Sonia insistette a ripetere che io ero stato pressocché nulla per lei, facemmo l’amore. Verso le dieci passarono dei suoi amici. Il piano era di trascorrere la serata in un locale a Trastevere. Io le dissi di non sentirmela di andare e le ingiunsi di rimanere con me, altrimenti sarebbe tutto finito tra noi due. Gli amici strombazzarono per metterle fretta (probabilmente ammaestrati da lei).
Non potrò mai dimenticare la porta di casa chiudersi alle sue spalle.

Decisi di uccidermi.
Il 10 luglio, dopo una passeggiata notturna per il Ghetto con Caterina, una ragazza che frequentavo da pochi giorni, compresi che era arrivato il momento giusto per mettere in atto il suicidio. Come Pavese mi sarei fatto fuori con delle pasticche di barbiturici.
Alla fermata degli autobus notturni, di lato a piazza Venezia, mi accorsi che un’esile giapponese mi guardava ammiccante. Di sicuro si trattava di un angelo.
Pertanto, quella notte, invece di ammazzarmi, mi abbandonai a momenti di intenso piacere sul letto che avevo scelto come capezzale.

1 commento su “Leone Papò 3”

  1. L’amore inteso come sofferenza, un classico della psicologia umana.
    Una visione decadente del rapporto uomo donna magistralmente autocommiserante e segnata. L’autore è cinicamente avvolto da una aura grigia e tossica dalla quale non vuole uscire, considerandola la giusta conclusione della sua esistenza.
    Senza un domani.
    Magistralmente dantesco.

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