Lorenzo Rossi 1

Domenica mattina

Mi chiamo, per decisione dei miei, Lorenzo e, per costrizione di uno stato patriarcale, Rossi. Sono un trentenne cisgender, per il momento eterosessuale, nato nella città retrograda in cui tuttora vivo. Quella celebre città retrograda, sinonimo in Italia di efficientismo che, nella sua frenesia novecentesca, produce senza sosta barriere granitiche per turare qualsiasi possibile breccia inclusiva. Sì, perché questa metropoli miserrima cela un sostanziale spirito retrivo sotto allo sfavillio di una tecnologia accecante, sotto al fervore di un volgare cosmopolitismo di facciata, sotto alla trama larga di un tessuto putrescente su cui compaiono i disegni più grotteschi di una continuità aberrante.
E io, questa domenica, mi sono scoperto in simbiosi marcia con la sua essenza ottusa.

Già in mattinata, mentre sciacquavo le tazzine del caffè dopo una colazione sbrigativa, è fuoriuscita l’inciviltà innata nei maschi bianchi italiani che come me si ritengono etero.
Non cerco inutili scusanti per la brutalità della constatazione fascista che sarà sbucata da qualche recesso solido del mio essere. È vero, potrei giustificarmi appellandomi allo stordimento di una notte trascorsa pressocché insonne, o richiamando la confusione procuratemi dai raggi di un sole primaverile che creavano sulla tavola minuscoli quadrati luccicanti, o riferendo lo spettacolo del polline danzante che donava una molesta sensazione di rinascita, oppure confessando il sovraffollamento dei pensieri eterogenei in una mente già di per sé in over booking. Ma io non accampo scuse. Accetto tutte le conseguenze della mia pochezza offensiva. Accetto la gogna del rimorso. E la vergogna susseguente.
Guardavo Giulia, la donna con cui condivido l’appartamento. Non direi mai la mia ragazza, primo perché lei non è un mio possesso, secondo perché il termine ragazza è disgustosamente maschilista. Guardavo Giulia, dicevo, che parlava, ma non l’ascoltavo con attenzione, distratto com’ero dalle tazzine, dal sonno, dai quadrati di luce ipnotizzanti, dagli starnuti e dai rendiconti interiori degli impegni domenicali. Riuscivo soltanto a capire che lei si soffermava sulle difficoltà di Gaia a trovare un partner adatto, scevro da qualsivoglia pregiudizio patriarcale.
Non so perché si è presentata, come fosse una fugace illuminazione interiore, l’immagine del viso di Gaia, con i suoi capelli unti, le sopracciglia folte, gli occhi a fessura che preludono a un naso affilato e a una bocca invisibile, data la sottigliezza delle labbra. Non so perché ma poi sono stato assalito da un altro flash abbagliante per quanto profondamente transitorio: l’outfit costantemente da manifestazione proPal, l’odore vivace di chi non detesta il soffritto, la lenta camminata solenne nella sua pesantezza dinamica, la voce stridula perennemente irritata, l’adipe inevitabile per chi oltrepassa gli ottanta chilogrammi e non raggiunge il metro e sessanta.
«Forse dovrebbe un po’ dimagrire».
Non mi va di riportare la replica piccata di Giulia perché ancora mi schiaccia il peso del turbamento di riconoscermi nient’altro che un cavernicolo incapace di non essere condizionato dalla propria mascolinità tossica. Valutare l’essenza di una donna tramite un metro di giudizio esclusivamente fisico è forse una delle peggiori tare insite nel DNA alterato del maschio bianco che si ritiene etero. Il rimprovero rabbioso di Giulia è stato fin troppo indulgente. E dire che tale mia caduta nell’inciviltà più bieca non è stato che il debutto squallido di una giornata ben più umiliante nel rivelare tutte le incrostazioni rivoltanti che deturpano il mio essere al mondo, la nocività di un ineluttabile modo di pensare malato che dovrebbe spingere al silenzio chi come me si rivela un figlio caucasian di questa città retrograda, falsamente al passo con l’epoca del trionfo dell’inclusività.

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