Quell’invisibile fil rouge americano

Lay lady lay / Across my bigbrass bed / whatever colors you have in your mind / I’ll show them on you / and you’ll see them shine/ lay lady lay…

Era stato un pomeriggio incartato. Radio Gamma aveva appena trasmesso Lay Lady Lay, di Bob Dylan, e a seguire, The Year of the Cat, di Al Stewart.

Troppa, l’intensità emotiva scaturita dall’ascolto di quelle canzoni in inglese, di cui capivo soltanto poche parole, ma abbastanza da lasciarmi trasportare dalle sonorità capaci di paralizzare la mia lucidità, e fare breccia nel cuore indisposto per un amore finito.

Spensi la radio e chiusi la porta alle mie spalle.

L’estate in una cittadina di provincia era di una bellezza spensierata, di coni gelato, di corpi abbronzati, levigati da olio di cocco, e avvolti in parure sgargianti. Ma nulla riusciva a fiaccare la malinconia che mi portavo addosso. Il desiderio di solitudine e l’acquisto compulsivo di un libro, gratificarono il mio divenire. Una coincidenza? Di più, un segno tangibile della presenza di Bob Dylan nella mia vita, che dopo l’ascolto in radio solo qualche ora prima, si materializzava tra centinaia di copertine ingiallite, di una bancarella di libri usati. Acquistai per poche lire, Bob Dylan, Blues ballate e poesie. Cura e traduzione di Stefano Rizzo, introduzione di Fernanda Pivano. Paperback poeti 9, Newton Compton Italia, 1972.

Da ragazzina che ero affidai la solvibilità temporanea dei tormenti amorosi a quelle pagine tradotte in italiano. Fu un pomeriggio catatonico, un tentativo di ricompormi distesa sull’erba di un piccolo parco, circondata da pavoni in gabbia, cigni solitari a bagno dentro un laghetto artificiale, mamme, marmocchi e pallonate, poi c’ero io, distaccata dal presente e immersa nella lettura dei testi che mi apparivano come poesia. Non poteva essere altrimenti.

Del resto quando nel 1996 avevano proposto la candidatura di Bob Dylan al Nobel della letteratura, la motivazione era stata:
«Per l’influenza che le sue canzoni e le sue liriche hanno avuto in tutto il mondo, elevando la musica a forma poetica contemporanea…»
In seguito, nel 2008, gli fu conferito un premio Pulitzer onorario per il «profondo impatto sulla popular music e sulla cultura americana». Dylan, era l’unico musicista rock insignito del riconoscimento, prima di lui erano stati John Coltrane e George Gershwin. Ma fu successivamente, il 13 ottobre del 2016, che gli assegnarono il Nobel, «in riconoscimento dei suoi innumerevoli contributi alla musica e alle lettere negli ultimi cinquant’anni».

Dunque un premio ispirato dai testi delle sue canzoni, e non di certo dai libri che aveva pubblicato in quegli anni: un romanzo sperimentale Tarantula, nel 1971, e la sua autobiografia, un best seller, Chronicle – Volume 1, del 2004.
Ad ogni modo, Bob Dylan non andò a Stoccolma a ritirare il premio. L’amica e cantante Patti Smith l’aveva sostituito, intrattenendo i presenti con il brano: A Hard Rain’s a-Gonna Fall, che a un certo punto viene interrotto perché aveva dimenticato le parole. Il Nobel a Dylan aveva suscitato perplessità e pareri contrastanti negli ambienti letterari di tutto il mondo. L’Accademia di Svezia negli anni aveva titolato diversi autori americani: Faulkner (1949), Hemingway (1954), Steinbeck (1962), Saul Bellow (1976), Isaac B. Singer (1978), Joseph Brodsky (1987), e la scrittrice Toni Morrison nel 1993, ma a dispetto del Nobel consegnato a Dylan, tuttora restano in attesa di essere nominati gli scrittori americani Pynchon e De Lillo, McCarthy intanto è morto.
Bob Dylan infine si presenterà a Stoccolma per ufficializzare il premio soltanto mesi dopo. La sua lectio magistralis, è stata trascritta nel volume: In The Nobel Lecture, un’edizione da collezione, in vendita sul sito ufficiale del musicista, una sorta di testamento per i giovani, in cui riflette sulla sua vita e sulla sua esperienza con la letteratura, offrendo sia una rara dichiarazione artistica sia uno sguardo intimo; in particolare, cita le opere letterarie che hanno contribuito a plasmare il suo approccio alla scrittura, L’Odissea, Moby Dick , Niente di nuovo sul fronte occidentale. Su Jack Kerouac, scrittore, simbolo della beat generation dice: “Ho letto Sulla strada, forse nel 1959. Ha cambiato la mia vita come ha cambiato quella di tutti gli altri. Pochi romanzi hanno avuto un impatto così profondo sulla cultura americana come Sulla strada. Pulsando con i ritmi dell’America underground degli anni ’50, il jazz, il sesso, le droghe illecite e il mistero e la promessa della strada aperta, il classico romanzo di Kerouac sulla libertà e il desiderio ha definito cosa significasse essere “beat” e ha ispirato generazioni di scrittori, musicisti, artisti, poeti e ricercatori che citano la loro scoperta del libro come l’evento che li ha “resi liberi”.

In molti ormai sanno che Robert Zimmermann, nato nel 1941 a Duluth, nel Minnesota, sceglierà il nome d’arte Bob Dylan in onore del poeta Dylan Thomas. Impara presto a suonare la chitarra, l’armonica e il piano; da adolescente scappa di casa numerose volte, suona nei locali in Colorado intrattenendo gli avventori con brani folk, frequenta per pochi mesi l’università, interrompe gli studi e si mette in viaggio in autostop fino al New Jersey, con lo scopo di incontrare il suo idolo Woody Guthrie, ricoverato in ospedale. Infine, si trasferisce per un periodo a New York. Con la chitarra e l’armonica, come un vero blues man, fa la gavetta, dorme nelle stazioni della metro, e si esibisce nei locali, tempio della musica folk, prima di diventare nel giro di pochi anni un mito della beat generation americana, un poeta di strada, come il suo idolo Jack Kerouac e l’amico poeta Allen Ginsberg.

Sulla vita di Bob Dylan in quegli anni turbolenti molto racconta Fernanda Pivano nella prefazione del libro Bob Dylan, Blues ballate e poesie, che di lui scrive: “Non c’è dubbio che al di là dello stellismo, al di là dell’industria discografica, al di là perfino della vanità personale o se si vuole del culto della personalità, Bob Dylan non fu soltanto un cantante e un chitarrista, ma fu soprattutto: un poeta e un profeta.”

Segue la narrazione sulla vita del musicista, perseguitato dai sostenitori dei movimenti pacifisti negli anni ’70, verrà apertamente contestato davanti la sua abitazione nel quartiere Greenwich di New York, colpevole, secondo loro, di aver tralasciato l’attivismo radicale per inseguire il successo e i propri interessi. In realtà Bob Dylan aveva trasformato il suo repertorio, dalle canzoni di protesta accompagnate dalla chitarra acustica del folk, era passato al genere rockeggiante con la chitarra elettrica, il brano LIke a rolling stone, ne testimonia il passaggio. 

Un’ascesa del personaggio, seguito poi da un fermo, tutto accade in pochi anni. Nel 1965, al Festival di Newport, Dylan ebbe l’ardire di presentarsi sul palco con un gruppo rock e la chitarra elettrica, venne preso a fischiate e cacciato dal palco. Seguì l’incidente in moto del 1966, accidentale o voluto? Si mormorava di un tentato suicidio del cantante. 

Dopo un paio di anni vissuti in sordina, riemergerà con la partecipazione al festival dell’Isola di Wight. Bob Dylan torna e si racconta: “Poi ho capito che era un vero incidente. Credevo che mi sarei alzato e avrei ricominciato a fare quello che facevo prima e invece mi sono accorto che non era più possibile”, ammette inoltre di essere attratto più dai testi intimisti che dalle canzoni di protesta, che non sente più sua. Verrà considerato una volta di più traditore e venduto. Inizia quindi il periodo rock, di musica di gruppo, e non più chitarrista solista di musica folk ispirata da Guthrie. 

Vivrà la sua vita artistica e personale in modo sfuggevole, a tratti indecifrabile, pur di non essere etichettato, di non essere imbottigliato, incanalato, vuole semplicemente sentirsi libero, “…io non voglio più scrivere per la gente, essere un portavoce, d’ora in poi voglio scrivere dall’interno, e per farlo devo scrivere come facevo a dieci anni, per far venire fuori tutto spontaneamente…”, dirà in una intervista negli anni ‘70.

C’è un filo rosso nella mia vita legato a Bob Dylan. Erano trascorsi più di dieci anni dalla mia estate adolescenziale, quando, per sfuggire la solitudine, mi ero immersa nella lettura dei testi delle sue canzoni tradotte in italiano.

Era accaduto, di nuovo, in un momento importante della mia vita.
L’ascolto diretto, era diventato un eco quotidiano delle sue canzoni, da Blonde on Blonde, Nashville Skyline, a Desire e la bellissima Hurricane, avvolgevano i pomeriggi, i miei, e quelli di Christian, fan sfegatato di Bob Dylan.
Anni dopo, nel 2001, uscì l’album: Love and Theft con il brano Mississippi che segnò l’epilogo del filo rosso che aveva legato la mia esistenza a quella di Bob Dylan. Christian in una nota destinata ai suoi amici più intimi aveva scritto: “Quando morirò, voglio che ascoltiate il brano Mississippi di Bob Dylan al mio funerale!”
Una profezia, un testamento. Questo, accadde tragicamente, due anni dopo.

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