Non dico addio. Viaggio inaspettato nella memoria di un massacro

Non dico addio, di Han Kang. Adelphi, 2024 “Quando qualcuno mi chiede che tipo di romanzo sia Non dico addio, il mio settimo romanzo, rispondo a volte che è il romanzo di un amore estremo. Altre volte dico che è una candela accesa negli abissi dell’anima umana. O, ancora, che si tratta della storia del massacro di Jeju.” [Han Kang]

Due amiche: Gyeong-ha e In-seon.
La prima vive nella periferia di Seul e sta attraversando un periodo di dolorosi cambiamenti personali. “Non mi ero riconciliata con la vita, ma dovevo ricominciare a vivere. (…) Per farlo, dovevo prima riflettere. Quando aveva cominciato a sgretolarsi tutto? Quale era stato l’istante della biforcazione? Quale il punto di svolta, la crepa, la frattura?”.
La seconda risiede in una casa isolata sull’isola di Jeju, dove svolge lavori di falegnameria. In-seon “è figlia unica e, poiché sua madre era sulla quarantina quando l’ha avuta, lei si è trovata presto a dover fare i conti con la sua vecchiaia.” (…) Quindi “è tornata al proprio villaggio di origine tra le montagne di Jeju per prendersene cura, ma l’ha persa quattro anni più tardi e dopo è rimasta a vivere da sola in quella casa”.
In-seon è stata una documentarista. Ha realizzato un cortometraggio su un evento accaduto in Corea del Sud nell’immediato dopoguerra (1948), divenuto poi noto come il massacro di Jeju.
Le due amiche si incontrano almeno una volta all’anno e nei loro discorsi c’è l’idea di un progetto comune: una sorta di installazione da realizzare con tronchi di alberi neri e spogli come lapidi. Ma è un progetto nel quale Gyeong-ha ha smesso di credere e, infatti, l’ha comunicato a In-seon nell’estate precedente agli eventi narrati nel romanzo. Gyeong-ha decide quindi di procedere da sola alla realizzazione del progetto.
Poi accade qualcosa.
In-seon invia un messaggio sul telefonino all’amica: “Puoi venire subito.” Ha avuto un incidente e si trova a Seul in una clinica di chirurgia ricostruttiva. Nel mentre sulla città si abbatte una tormenta di neve, Gyeong-ha si precipita da lei. In-seon ha perso due dita della mano destra, troncate dalla sega elettrica, ma non è questo a inquietarla.
«Potresti andare a casa mia, a Jeju?».
«Quando?».
«Oggi prima che faccia notte».”
È un’impresa al limite dell’impossibile. È già tardi, inoltre la tormenta potrebbe aver determinato la chiusura dell’aeroporto e l’interruzione dei voli, ma In-seon insiste.
“«Sennò muore».
«Chi?».
«L’uccellino».”
Gyeong-ha ricorda Ami e Ama, i due pappagallini dell’amica.
“«Ami è morto qualche mese fa, è rimasto solo Ama».” La informa In-seon. Inizia così il disperato tentativo, da parte di Gyeong-ha, di salvare Ama. È un viaggio notturno, funestato dalla bufera di neve, da incidenti, ma anche da domande senza risposta. “Non so come dormono e muoiono gli uccelli. Se quando svanisce l’ultima luce anche la loro vita si spegne. O se qualcosa di simile ad una corrente elettrica continua a scorrere in loro fino all’alba”. Inevitabilmente, quando giungerà nella casa tra le montagne di Jeju, troverà il pappagallino morto.
A questo punto il romanzo di Han Kang cambia passo e diventa sorprendente.
Con l’intensificarsi della tormenta aumenta il freddo. “Mi sta salendo la febbre. Tremo sempre di più. Qualunque cosa tocchi la mia pelle è gelida”. Gyeong-ha sprofonda in una sorta di incoscienza attraversata da incubi che si fanno avanti come punteruoli. Ad un certo punto ha la sensazione di volare insieme agli uccelli su una immensa distesa ghiacciata, poggiata come un manto sulla totalità del pianeta. Non può posarsi perché il gelo della terra la ucciderebbe all’istante e quindi continua a librarsi nell’aria fredda. Planando si addormenta e quando si risveglia ricomincia a battere le ali.
La notte sembra non finire mai. Ancora in preda alla febbre, nei brevi momenti in cui recupera la coscienza, la donna pensa di essere sul punto di morire. “Sono venuta qui per morire. Sono venuta per essere sfregiata, trafitta, strangolata, bruciata”.
Quando riapre gli occhi, la stanza è avvolta in una luce grigio-azzurra. La febbre però è scesa, il mal di testa e la nausea spariti. Ha dormito a lungo: l’orologio segna le quattro del pomeriggio. Attorno a lei c’è silenzio. Si alza dal letto, cerca di coprirsi indossando il cappotto dell’amica. Beve un lungo sorso di acqua gelida. Mentre si muove nella penombra della casa sente un pigolio. Istintivamente volge lo sguardo verso la gabbia e scorge Ama, appollaiato sul trespolo. Gyeong-ha si affretta a dargli da bere. Mentre l’osserva prendere un sorso d’acqua col becco, piegare la testa all’indietro per inghiottire e ripetere più volte il gesto, si chiede: “«Anche da morti si sente fame?».”
È impossibile che Ama sia tornato. Gyeong-ha ricorda bene di averlo seppellito la sera precedente. Eppure ora è di nuovo nella sua gabbia.
Poco dopo, nella casa isolata tra le montagne dell’isola di Jeju, una casa senza luce né acqua corrente, una casa dove un albero immenso sembra incedere ogni notte verso chi la abita, agitando i lunghi rami come fossero braccia, una voce umana si aggiunge ai pigolii di Ama.
“«Quando sei arrivata?».” È la voce di In-seon.
Ma In-seon è in ospedale a Seul! Anche di questo Gyeong-ha è certa. Benché sia pallida e smunta, non ha alcuna ferita alla mano destra.
“«Sto continuando a sognare?».” Gyeong-ha se lo chiede, ma decide di non dare importanza alla domanda. Piuttosto preferisce dialogare con l’amica in quella che appare come una dimensione parallela, o, più semplicemente, una manifestazione “altra” di ciò che può esistere.
Alla voce delle due amiche si aggiunge anche quella della madre defunta di In-seon, che ha vissuto direttamente il genocidio perpetrato sull’isola.
Agli eventi del presente narrato nel romanzo si intrecciano i fili della memoria, confinata dai vivi nel silenzio.
Nella casa isolata tra le montagne dell’isola di Jeju, mentre la neve continua a imbiancare la terra, In-seon svela a Gyeong-ha i suoi segreti più intimi e la sua scelta di non interrompere il “dialogo” con il mondo andato perduto.
A pochi passi dalla casa isolata tra le montagne dell’isola di Jeju, al di là di un torrente asciutto, c’è un villaggio di gente massacrata e case bruciate. In-seon, come prima aveva fatto sua madre, ha continuato a “portarsi” verso di loro.
Viene in mente lo splendido verso di Paul Celan. “Die Welt ist fort, ich muss Dich tragen” (Il mondo non c’è più, io devo portarti). La morte non è solo la fine di qualcuno nel mondo, ma la fine di quell’unico mondo. Portarsi verso l’infinita inappropriabilità dei tanti mondi scomparsi dopo il massacro è stata la scelta di In-seon.

“Se cerco l’origine di questo romanzo, devo risalire al periodo in cui, poco più che ventenne, avevo lasciato la casa editrice per la quale lavoravo. Avevo allora affittato una camera in un villaggio, sull’isola di Jeju. La mia padrona di casa era una persona anziana. Era una donna molto gentile, che mi trattava benissimo, della quale serbo bei ricordi. Un giorno mi chiese di aiutarla a portare all’ufficio postale un pacco che era troppo pesante per lei. Camminando imboccammo una strada e, ad un tratto, la signora anziana si fermò, indicandomi una muraglia di pietra. «È qui che gli abitanti sono stati fucilati all’epoca del massacro di Jeju», mi disse. La spaventosa scena del massacro si presentò con grande realismo di fronte ai miei occhi. Era la prima volta che sentivo parlare di quella grande tragedia. Più avanti, nel 2018 e nel 2019, sono tornata a Jeju. In quel periodo mi dividevo tra Jeju e Seul. Sull’isola ho camminato molto, riempiendomi di vento, pioggia e neve. Ripensavo a quegli eventi passati e mi sono detta che forse avrei potuto scrivere un romanzo su quella storia.” [Han Kang]

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