Jon Fosse, Melancholia I-II, Det Norske Samlaget, 1995, 1996; La Nave di Teseo editore, Milano, 2023.
La prima edizione italiana è stata pubblicata da Fandango nel 2009.
Era da molti anni, dalla lettura di Auto da fé di Elias Canetti, che un romanzo del XX secolo non mi aveva più rovesciato addosso il senso di smarrimento perdutamente ammirato, l’emozionante, spasmodica tensione di fronte alla grandezza di una scrittura. Qualche settimana fa mi è finalmente successo di nuovo e, lo confesso, inaspettatamente, con Melancholia I-II di Jon Fosse.
Certo, avevo già letto in precedenza Joyce, Musil, Kafka, Giuseppe e i suoi fratelli di Mann. Canetti venne ultimo e da allora magnifiche, talvolta grandi letture ma nulla di paragonabile. Finchè non ho preso in mano questo dittico dello scrittore norvegese, all’incirca a un anno di distanza dalla sua vittoria del Nobel. Alla notizia del premio avevo cominciato a leggere in parallelo anche Settologia, pubblicato oltre venti anni dopo e considerato il suo capolavoro. Ma immediatamente mi ha travolto il modo, che definirei inaudito, in cui Fosse racconta nella prima parte la vicenda dell’arte e della follia del pittore norvegese dell’Ottocento, Lars Hertervig, e poi, nella seconda, il quieto delirio della memoria che svanisce della vecchia sorella Oline, angosciante, duro ma anche lieve e tenerissimo. Ho interrotto Settologia; la riprenderò tra poco.
La motivazione del Nobel afferma che la prosa e le opere di Fosse danno voce all’indicibile. Per il vero non capisco bene cosa i premianti abbiano inteso dire. Penso piuttosto sia indicibile per un lettore, forse anche per un critico, esprimere anche lontanamente cosa si prova leggendo Melancholia.
Io comunque critico non sono. Sono un lettore che sente il desiderio stringente di comunicare ad altri lettori l’entusiasmo e la commozione che non mi hanno mai abbandonato, pagina dopo pagina. Mi rendo conto che le poche righe che ancora mi mancano da scrivere non saranno analitiche, avranno una valenza critica pari a zero, si abbandoneranno a un’enfasi sperticata, probabilmente candida, ingenua.
Non racconterò nulla del romanzo, della costruzione del periodo, che nella lingua originale è costruito addirittura musicalmente, ci dice la bravissima traduttrice Cristina Falcinella. Né sulla punteggiatura irrazionale, né sulle ossessive ma sempre sottilmente variate ripetizioni nell’allucinato ininterrotto monologo di Lars Hertervig e in quello altrettanto ininterrotto e sconnesso di Oline, soave però anche quando sta così tanto a lungo seduta sul gabinetto nella casetta esterna, aspettando la morte, desiderata fine dei suoi dolori, e allo stesso tempo aspettando e desiderando che esca dal suo corpo quello che le opprime l’intestino e che non si decide mai a uscire.
Dirò solo del più intenso momento del mio sbalordimento estetico e umano. La parte di Melancholia I nella quale il pittore norvegese è rinchiuso in manicomio e il suo disperato torrenziale vaneggiamento ci soffoca, ci destabilizza profondamente, ci coinvolge in una impotente disperazione (non ci rassegnamo, vorremmo fare qualcosa per lui, spiegargli, aiutarlo!) ha rappresentato per me qualcosa di letterariamente enorme. Di così enorme non avevo letto più nulla dai tempi di Elias Canetti.
PS – Prima di cominciare a scrivere, avevo intenzione di proporre ai lettori un’operazione di quelle, a occhio, culturalmente eleganti, di quelle che costituiscono un possibile tema di discussione nelle chiacchierate con gli amici acculturati. Appena prima di Melancholia avevo letto, dopo Il passeggero di Cormac McCharty, il suo cerebrale prequel Stella Maris, l’ultimo romanzo dello scrittore americano pubblicato nel dicembre 2022. Volevo scrivere un pezzo sulle “due follie”; mi sembrava potesse essere interessante e attraente, appunto elegante. Le due follie comparate, però, avrebbero comportato necessariamente un po’ di analisi, di commento e di interpretazione. E anche in questo caso Melancholia mi ha travolto e ho rinunciato. Spero di tornare tra non molto sulle turbe mentali di Alicia Western.